Intervista del 23 giugno 2016 a Werner Bokelberg (sito web: http://www.bokelberg.com/).
Il signor Bokelberg mi ha gentilmente concesso un incontro nella sua bella casa nel sud della Francia. Per comunicare abbiamo usato la lingua inglese. Qui propongo il resoconto in italiano, ma presto pubblicherò anche la trascrizione di come si è svolta in inglese a beneficio dei lettori stranieri, se ve ne saranno.
Nato a Brema nel 1937, Bokelberg intraprende la carriera dell’attore per poi correggere il tiro ed orientarsi verso la fotografia. Il suo strumento principale è il bianco e nero, che caratterizza tutta la sua produzione.
Lui e sua moglie mi accolgono con cortesia squisita nella bellissima dimora in cui passano le loro vacanze estive. Non solo ho il piacere di trascorrere quasi un’ora in sua compagnia, ma mi permette di registrarlo e di portare via con me una copia del volume Da-Da-Dalì. Proprio da quest’opera e dalle foto al suo interno inizia la nostra conversazione. Il libro in questione è il lavoro a quattro mani di Bokelberg e Dalì, un insieme delle loro arti, la fotografia per il primo e se stesso per il secondo. Da questo volume, edito nel ’66, ma le cui foto furono scattate nel ’64, la nostra intervista spazia verso Picasso, la fotografia oggi, le mode e le mediocrità, il valore del bianco e nero.
Domanda: Prima domanda, forse un po’ banale, ma non posso fare a meno di chiederlo: com’era Dalì?
Risposta: Meno pazzo di quanto sembrasse dal di fuori. O meglio, la sua follia non era follia come la intendiamo normalmente: era la sua essenza, la sua natura, lo strumento con cui lavorava, senza il quale non sarebbe stato Dalì. Ed in questo era davvero professionale.
D: Come andò sul set fotografico di Da-Da-Dalì? In che modo ha visto la luce questo volume?
R: Era la mia prima volta in Spagna; quando arrivai, dopo un lunghissimo viaggio da Amburgo, mi dissero anche avrei dovuto trovare un sacco contenente cento chili di fagioli secchi. Non sapevo dove trovarli, non parlavo nemmeno spagnolo, eravamo in una piccola cittadina e mi ci vollero delle ore per trovarli. Una volta trovatili, tornai al luogo dell’appuntamento e vidi Dalì con questa ragazza completamente nuda, con un guinzaglio al collo ed un cucciolo di ghepardo. Eravamo al bordo di una piscina all’aperto vuota. Dalì si mise subito al lavoro, mi disse: “Eccoti qui, dammi i fagioli.” E poi le foto parlano per me: versò i cento chili di fagioli secchi addosso alla modella che se ne stava sul fondo della piscina vuota, in un angolo. Questa era arte, non era follia.
D: Mi fa quasi pensare alle performance shock di Marina Abramovic. La gente la taccia spesso di pazzia ma tutta la sua opera è un unico statement.
R: In un certo senso sì.
D: E da questa vostra collaborazione artistica ne è nato il volume Da-Da-Dalì.
R: Sì, io curai le foto, ma il layout del libro fu tutta opera di Dalì.


D: Lei ha lavorato anche con Picasso…
R: No, non posso dire di averci lavorato. Lo ho ritratto, questo è vero, in una sola sessione, ma non abbiamo collaborato come ho fatto con Dalì. D’altra parte Picasso è stato ritratto da molti. Quando un personaggio del suo calibro viene fotografato più e più volte nel corso del tempo e da tanti obiettivi diversi avviene solo per immortalarlo come era in quel momento esatto, quando stava attraversando quel periodo o quell’altro, e come era dieci anni prima, o dieci anni dopo, e si fa anche un confronto tra la sua apparenza fisica, la moda del tempo, il suo stile pittorico in quegli anni… non si cerca lo sguardo del fotografo, in questi casi: è il soggetto che fa tutto da sé, per la sua importanza e per la sua fama. E d’altra parte è solo un ritratto, non è un progetto, un lavoro.

D: Oggi la fotografia è molto più “in vista” di quanto non lo fosse nei decenni passati. Le mostre sono tantissime…
R: Troppe.
D: Beh, è considerata oramai un’arte alla portata di tutti: dalle applicazioni per gli smartphone ad una certa moda, una sorta di posa che molte persone amano assumere per darsi un tono, specie sui social network. Lei che ne pensa?
R: Mettiamola così: oggi tanti fotografi mediocri hanno la possibilità di fare delle belle foto, ma solo per caso, per un momento fortunato in cui riescono a catturare la luce e il soggetto in un modo che riesce ad esprimere qualcosa. Se però gli viene chiesto di ripetere lo scatto, non avranno alcuna idea di come replicarlo. Un fotografo vero lo sa rifare, invece.
D: Che cosa pensa della tecnologia che si è sviluppata dietro la fotografia, oggi?
R: Prima per produrre una bella foto ci si doveva pensare molto, e non si poteva esagerare nel numero di scatti per sessione, perché il materiale non era infinito, la pellicola dopo un po’ si esauriva. Ora invece si possono fare centinaia e centinaia di scatti per poi correggerli e migliorarli digitalmente. Quella è fotografia? No, io la chiamerei piuttosto un modo per produrre delle belle immagini. Immagini, non foto.
D: La sua scelta del bianco e nero è esclusiva. Nell’immaginario comune il passato è in bianco e nero, forse perché le vecchie fotografie e i vecchi film ci hanno abituati a questo. In genere si dice che una volta le persone erano più belle, tutto era più bello, anche grazie all’aura di mistero e di opacità conferita dal bianco e nero. Lei è d’accordo?
R: Sì, forse. Ma non bisogna dimenticare che una volta farsi fotografare era un avvenimento molto importante e raro, per cui le persone ci tenevano ad apparire al meglio. Ora la fotografia è presente nella vita di tutti i giorni, e questo ha delle conseguenze anche sul piano estetico.
D: Beh, anche nelle vecchie Polaroid le persone sembravano più belle che adesso, forse perché erano giovani…
R: Merito è anche della patina della polaroid e dello sbiadire del colore nelle vecchie pellicole.
D: Ora le Polaroid sono tornate di moda. Che ne pensa?
R: Che non fanno nessun danno.
D: E del selfie?
R: Che è narcisismo puro e senza senso.
D: Lei parla della fotografia in modo molto prosaico e distaccato, come se fosse un mero strumento per rappresentare la realtà e non come un’arte alla stregua della composizione musicale, della pittura o della scultura.
R: Questa constatazione è interessante. Sì, non posso negarlo. Credo che questa sensazione sia legata alla brevità dell’atto dello scatto. Un pittore impiega molto tempo per produrre la sua tela, un compositore suda sullo spartito per partorire una melodia. La fotografia, per quanto a lungo si possa studiare un soggetto e le migliori condizioni per ritrarlo, è così immediata e breve che è difficile possa comunicare di più o più intensamente di un’opera su cui si è lavorato a lungo, in cui si è riversata una parte di sé. La fotografia era molto più “arte” al tempo dei pionieri come Nadar, quando la posa di un soggetto e la sua presa duravano diversi minuti, un tempo più consistente, in cui il creatore e il soggetto avevano più possibilità di infondere qualcosa della loro interiorità in quello che stavano facendo rispetto ai fotografi più recenti. Le foto di allora mostravano davvero di più. In questo senso io non vedo la fotografia come un’arte, ma come un mezzo di rappresentazione estetica della realtà.
Lascio casa Bokelberg con le mani piene di un volume di Da-Da-Dalì, un taccuino per scrittori e una raccolta di vecchie foto in formato cartolina della Saint Tropez dei primi del novecento che lo studio Bokelberg ha rieditato (sempre per restare in tema di bianco e nero, vecchio e nuovo).
I signori Bokelberg sono stati gentilissimi e conserverò nel cuore il ricordo di un’ora piacevolissima trascorsa insieme ad un maestro e ai suoi ricordi professionali.