Mulhouse e Strasbourg: viaggio notturno sentimentale in un pezzo di Francia che è già Germania (o forse no).

Ho attraversato l’Alsazia in una fredda sera di metà novembre, direzione Treviri.
Le due brevi tappe che mi sono concessa sono state a Mulhouse e a Strasbourg. Nulla di che, nemmeno il tempo di sgranchirmi le gambe, figuriamoci andare a dare un’occhiata a qualche via o monumento.
Però è bastato quel poco per percepire il senso di transizione che ispira quel pezzo di terra.
L’Alsazia (e la Lorena) è salita agli onori della cronaca nel programma scolastico di storia più e più volte: una disputa secolare per il dominio della regione tra Francia e Germania.
E se si mette il naso fuori dal finestrino della macchina si capisce il perché: si è in Francia, a tutti gli effetti. Basta contare il numero di boulangeries che, seducenti, ammiccano nella gelida aria notturna novembrina. Ma i nomi dei luoghi e delle località rimandano ad un passato tormentato, ad un’identità assai più teutonica che gallica. Il nome stesso della regione deriva dall’alto tedesco antico Ali-saz or Elisaz, che significa “dominio straniero”.

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Mulhouse

Una breve cronologia del palleggio tra Francia e Germania potrebbe dare un’idea della precarietà storica di questa terra e di come è assurta a simbolo della rivalità franco-asburgica:
già assegnata a Lotario alla morte di Carlo Magno (814), l’Alsazia-Lorena fu parte del Sacro Romano Impero, se si vogliono considerare l’Impero Carolingio ed il Sacro Romano Impero due entità separate. Alcuni storici sono contrari a questa lettura, preferendo individuare nei due regni un unicum senza soluzione di continuità. Prendendo per buona però la prima versione e ponendo l’inizio del S.R.I. nel 962, quando fu eletto imperatore Ottone I (nota bene: la particolarità del S.R.I. era proprio la carica elettiva del sovrano, che rispecchiava in un certo qual modo la tradizione tribale barbarica del primus inter pares), si può dire che l’Alsazia-Lorena passò dall’Impero Carolingio al Sacro Romano Impero mantenendo un’identità più prettamente teutonica.
 Durante la catastrofica guerra dei trent’anni, essa non venne risparmiata e finì per diventare un pezzo del complesso puzzle geopolitico risultante di quel guazzabuglio europeo. Col passare dei secoli le due regioni furono assegnate al Regno di Francia, precisamente sotto Luigi XIV le roi soleil, per ritornare alla Germania durante il conflitto franco-prussiano nel 1870. Alla fine della prima guerra mondiale l’Alsazia-Lorena fu riammessa alla Francia, fu re-invasa dalla Germania durante l’offensiva bellica del secondo conflitto mondiale, alla fine del quale il territorio conteso rientrò nei confini francesi dove è tutt’oggi.

Niente male per una provincia qualunque dell’Europa centrale.

C’è da immaginare un bel clima di tensione nel periodo delle due guerre mondiali: spionaggio, fraternizzazione col nemico, doppio gioco e nazionalismo da ambo le parti. A questo proposito consiglio la visione di un film meraviglioso uscito quest’anno nelle sale: “Frantz“, produzione franco-tedesca, diretto da François Ozon, girato quasi interamente in bianco e nero, un film struggente sull’elaborazione del lutto e sullo stress post-traumatico sofferto dai poveri soldati reduci della Grande Guerra.

Mantenendo tutto questo a mente, il canto notturno di una donna errante d’Europa si trasforma in una sequela di toponomi di villaggi e cittadine, masticati fingendo un accento tedesco che non ho (perché non conosco il tedesco) e sputati arrotando la erre alla francese.
La tappa a Mulhouse si trasforma in un sogguardare in giro, timidamente, sapendo che è la città natale di un personaggio tanto ammirato, Philippe Daverio, e di un tale Alfred Dreyfus, il cui affaire, se proprio si vuole fare il gioco della causa-effetto, è il casus belli del conflitto israelo-palestinese. Sì, perché se Dreyfus non fosse stato accusato ingiustamente, Zola non avrebbe mai scritto il “J’accuse“, in Europa non si sarebbe espansa l’ondata di antisemitismo che spinse Theodor Herzl a scrivere “Der Judenstaat” e forse tutto sarebbe stato diverso.

Colmar, Strasbourg… l’Alsazia sfila nel buio della notte autunnale, l’automobile fa le acrobazie sul confine tra due stati, come un equilibrista, un circense ubriaco. Ho fame, ma c’è tanta strada da percorrere, ancora, non si può indugiare.
Ci si tuffa nella foresta tedesca, francophonie alle spalle, boulangeries dietro di noi, davanti Treviri e Karl Marx, le pale eoliche che nel buio lampeggiano rubizze, come tanti UFO venuti a prelevarci per riprogrammarci. La carreggiata è dritta, in discesa e in salita, in mezzo ad un bosco immenso, dagli alberi glabri e lugubri. La luna è piena, ma celata da una coltre di nubi che attutisce ogni pensiero.
Il buio appanna i sensi, non li acuisce. Il freddo penetra nelle ossa, si è disorientati dalla mancanza di civiltà: la città è ancora lontana, l’ora di arrivo è posposta, il cuore è affannato.

Una delle persone più care mi ha lasciato, e io lo vengo a sapere in viaggio, di notte, lungo una strada infinita attraverso una selva oscura tra Francia e Germania.

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