Oggi, 4 Dicembre, è il giorno di Santa Barbara martire. Patrona dei vigili del fuoco, della marina militare, degli artiglieri, degli artificieri e degli architetti, è un personaggio storico attorno cui sono sorte moltissime leggende, nutrite senza dubbio dalla Legenda Aurea, il best-seller di Jacopo da Varagine, frate domenicano e grande agiografo vissuto nel Duecento.
Dicevamo, le vicende di Santa Barbara sono variegate e differenti, a seconda della fonte a cui ci si accosta per apprendere sulla sua vita. Ad ogni modo, tutte hanno alcuni tratti in comune: un padre orribile che la vuol costringere all’abiura del cristianesimo e che le fa subire tutti i più inenarrabili supplizi, la capacità di attraversare i muri, la volontà di far aprire una terza finestra nella torre in cui è rinchiusa per simboleggiare così la Santa Trinità, il dono del volo, qualche folgore qua e là sparsa che si porta via uomini malvagi che l’hanno osteggiata nella sua fede in Cristo.
In Provenza c’è una tradizione che riguarda il giorno di Santa Barbara: si devono mettere a germinare in tre ciotoline, con un po’ di terra o di cotone inumidito, tre manciate di chicchi di grano del raccolto precedente, o qualche lenticchia, o dei piselli. Se i chicchi germinano a dovere, allora l’anno venturo si prospetta buono, secondo l’adagio provenzale:
Quand lou blad vèn bèn, tout vèn bèn !
Quando il grano viene su bene, tutto andrà bene!
Perché le ciotoline debbono essere tre? Per simboleggiare la Santa Trinità, così come Santa Barbara insisteva tanto per far costruire una terza finestra nella torre in cui il padre la teneva prigioniera.
Buona Santa Barbara a voi, nella speranza di un anno in cui la terra dia buoni frutti e sia meno ferita dalle azioni dell’uomo. Un saluto dalla costa provenzale, martoriata dalle intemperie di queste ultime settimane.
A Saint Tropez c’è il mercato del pesce, una galleria che dal porto va verso il vecchio villaggio, sbucando su quella che è chiamata “Piazza delle Erbe”. Sebbene oramai vi si affaccino il bar Senequier con il suo impero bianco e rosso, la boutique di Missoni, un alimentari di lusso e altri negozi di cianfrusaglie, questo angolo del paese mantiene intatto un sapore antico e semplice, che si ritrova nelle vecchie cartoline color seppia o nei quadri dei pittori che a Saint Tropez hanno soggiornato e vi hanno trovato ispirazione. Charles Camoin (1879-1965), ad esempio, pittore marsigliese innamorato del sud, ha ritratto questo angolino in una tela conservata oggi al Musée de l’Annonciade, importante polo artistico del villaggio provenzale.
Charles Camoin “Piazza delle erbe di St. Tropez”, Museo dell’Annonciade
Se si passa per di là la mattina presto, si viene investiti dall’odore fresco, salato, denso e ancora gradevole del pesce appena pescato. I venditori urlano e salutano da dietro i banchi bordati di ghiaccio ed erba scura, stretti lungo questo budello lastricato di sampietrini, col selciato dalla caratteristica forma a botte che lascia colare lungo i lati i liquami ittici.
Paul Signac, “Il temporale”, Museo dell’Annonciade
A partire dal dopo pranzo, la nettezza urbana si occupa di mondare la galleria, spruzzando ovunque dell’acqua in cui è stato disciolto un prodotto igienico dal peculiare olezzo di sciroppo per la tosse.
Il sole gioca coi tetti e le persiane, disegnando poligoni ombrosi sui muri delle case. Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione, epurare la scena dei cassoni dei condizionatori che come dragoni grigi sputano aria calda, dei turisti in canottiera e ciabatte intenti a leccare coni gelato mezzi scioli, dei fari abbaglianti che ammiccano seducenti dalle vetrine lussuosissime. Ecco che l’immagine di una St. Tropez innocente, colorata, laboriosa, allegra e naturale riappare, forse nel modo in cui si manifestava agli occhi del pittore neoimpressionista Paul Signac, che qui acquistò una casa e ne fece il suo atelier.
Albert Marquet, “Il porto di St. Tropez”, Museo dell’Annonciade
È bella, St Tropez, anche se ora si addormenta all’ombra dei grandi yacht dei ricchi che vengono ad ostentare quanto possiedono in questo piccolo porto. È bella, anche quando al posto delle bottegucce e delle boulangeries ci sono Valentino, Chanel, Armani e Cartier che fanno sentire poveri e infimi. È bella soprattutto la mattina presto, quando i bagordi della sera prima trattengono a letto le masse di visitatori, i quali forse non vedranno mai il gioco della luce del sole tra le lapidi del cimitero marittimo a strapiombo sul mare, disteso come una tovaglia bianca ai piedi della cittadella.
Quest’oggi è la giornata della Bravade de Saint Tropez, una festa che unisce fede cristiana, tradizione popolare e orgoglio cittadino.
La Bravade in sé per sé è una parata di tropeziani in costume tradizionale, muniti di tamburi, trombette, fucili e moschetti, costituita di diverse parti e fasi che si articolano nell’arco di tempo di tre giornate: il 16, 17 e 18 Maggio di ogni anno.
Il nome fa risuonare subito alle nostre orecchio la parola “bravo”. Andiamo ad analizzarne l’etimologia; il sito Una parola al giorno dice:
Dallo spagnolo: bravo, forse a sua volta dal latino: pravus storto, malvagio, o da barbarus selvaggio, indomito. Vedendo l’etimologia paradossale di una parola tanto certa e comune qualcosa proprio non torna. Il bravo è l’esatto contrario del selvaggio e del malvagio. Un bravo bambino, una brava persona… hanno qualità di posatezza ed onestà! Non dobbiamo però scordare il cuore levantino in cui questa mediterranea parola ha ribollito per secoli, acuto nello scovare qualità positive nella canaglia. Lo storto, fuori regola, è anche eccezionale, e così il selvaggio è indomito, valoroso, e non conosce paura. È vero, restano ancora in piedi i connotati più torbidi delle bravate, delle notti brave, dei bravi di Don Rodrigo, ma sono marginali: la radice di questa parola è esplosa nel mondo in un cristallino odore di apprezzamento, stima, nel vigore dell’abilità volta al bene. Così possiamo pensare al coraggioso inglese, il “brave”, e pensiamo all’universale “bravó” che rimbomba acclamante nei teatri più eleganti di tutto il globo. Da noi è una parola normale, fondamentale – in virtù della sua storia, forse quasi identitaria, per la nostra cultura. Da piccoli facciamo i bravi a modo nostro e poi diventiamo bravi nel nostro lavoro, tornando a casa ci gustiamo una brava cena – splendido rafforzativo – e portiamo fuori il cane, dicendogli bravo quando ringhia alla vicina bisbetica. Il bravo resta ciò che spicca senza frastuoni, armoniosamente, al suo posto, in un modo anche originale, ormai ripulito dalle passate depravazioni – di cui è però rimasto lo smalto allegro e capace
Le bravate e i bravi di Don Rodrigo hanno tutto a che fare con la Bravade de St.Tropez. A partire dal IX secolo, i pirati saraceni facevano spesso incursioni e scorribande lungo le coste provenzali. Si dice addirittura che la cittadina di Ramatuelle, nella cui municipalità si trova l’arcinota spiaggia di Pampelonne, sia stata fondata da alcuni turchi rimasti a terra dopo un attacco pirata. La prova sarebbe l’etimologia del toponimo: rahmat Allah significa infatti “provvidenza divina” in arabo.
Busto del santo in processione
Fu così che i cittadini tropeziani si organizzarono e si armarono per difendersi dai mori, nominando un condottiero, il Capitain de la ville. Con delle lettere patenti reali, la sua autorità e il suo raggio d’azione furono ufficialmente riconosciuti e la carica restò importante ed attiva fino all’arrivo dell’assolutismo e della centralizzazione totale del potere nella persona del Re Sole. Egli stabilì che una guarnigione fissa dovesse acquartierarsi sul promontorio strategico all’entrata del golfo di Saint Tropez, laddove ora sorge la Citadelle, che ospita un bellissimo museo di storia marinara. I cittadini furono così “espropriati del potere militare” e la difesa della zona fu delegata ai soldati professionisti. Ma i fieri tropeziani si rifiutarono di rendere le armi. Le conservarono e, non potendole usare per la difesa, iniziarono a rispolverarle ogni anno in occasione della festa del santo patrono, come a dire “siamo pronti, nel caso ci fosse bisogno di noi”. Una bravata bella e buona! Ecco perché i tre giorni di Bravade sono accompagnati da un continuo esplodere di colpi a salve.
Costumi tradizionali
Insieme ai fucili e ai costumi provenzali antichi, i tropeziani accompagnano in processione la statua del loro santo patrono, contornata di tanti mazzolini di pitosforo profumato e benedetto: si tratta si San Torpete, ufficiale altolocato della guardia imperiale romana, originario della città di Pisa il quale, al tempo di Nerone, ebbe il coraggio di “fare coming out” e annunciare al folle imperatore piromane la sua fede cristiana (fu convertito nientemeno che da San Paolo in persona). Torpete rifiutò l’abiura impostagli da Nerone e per questo fu martirizzato. Dapprima cercarono di darlo in pasto alle fiere, le quali si accucciavano docili ai suoi piedi. Poi lo vollero flagellare, ma la colonna a cui fu legato cadde a terra. Finirono con il decapitarlo alla foce dell’Arno il 29 Aprile del 68 d.C. I cristiani di Pisa raccolsero la sua testa e la conservarono come santa reliquia in una cappella a lui dedicata. Il corpo fu messo insieme ad un gallo e ad un cane, che presumibilmente dovevano cibarsene, dentro una barca, che fu sospinta al largo dai venti e fu trasportata placidamente dalle acque fino alle coste dell’antica Gallia. Fu una donna, Celerina, avvertita in sogno, che andò in spiaggia ad accogliere la salma del santo, rimasta miracolosamente intatta. Il cane restò con lei, il gallò saltellò fino a qualche chilometro dalla costa, e si fermò in mezzo ad un campo di lino. Era le coq au lin, il volatile che diede il nome al villaggio di Cogolin.
Un luogo di culto fu poi edificato velocemente e le spoglie del santo vi furono traslate il 17 Maggio.
Saint Tropez
Pisa
Ecco anche spiegato perché i colori della Bravade sono il bianco ed il rosso: stanno a simboleggiare il legame tra Saint Tropez e la città di Pisa, una delle grandi repubbliche marinare del medioevo, il cui stemma è proprio bianco e rosso.
In a magnificent restored Provençal villa, under the glaring sun of the French Riviera, Edouard Carmignac’s precious contemporary art collection is superbly displayed in the form of “Sea of desire”, an exhibition running until the 4th November.
The visitor is invited to dive in and enjoy the spectacle barefoot, feeling the ground right under the soles of their feet. This allows an unexpected feeling of profound connection with the place and with the tormented beauty of the artworks exhibited.
Roy Lichtenstein’s “Beach scene with Starfish” welcomes the visitor, whose gaze is then attracted by two Andy Warhol pieces: the portraits of Mao Tse Tung and Lenin. Many more masterpieces are then to be discovered step by step.
The exhibition deliberately presents what could be found in the “sea of desire” that is human nature: not only the incandescent experiences of love, eros and beauty, represented by Botticelli’s Virgin Mary and Venus – sacred and profane love, but also desperation, tragedy and revolution.
This voyage continues in the garden of the villa where, in the middle of the grapevines and olive tree groves, among other remarkable artworks, the whimsical “Path of Emotions” by Jeppe Hein, a maze constituted by mirrored posts and rushes, leaves the visitor astounded, thanks to indescribable disturbing reflections.
This outstanding exhibition is surely a must, a rendezvous for any art lover, but it is also a space-time for anybody in need of an occasion to fathom their own “sea of desire”.
“Sea of desire” – Carmignac Foundation, Porquerolles isle, Hyères, running until 4th November. Entry ticket 15 euros.
Febbraio è il mese più crudele.
Non si sta prendendo in giro Eliot, ma si sta parlando di nostalgia.
Sebbene l’espatrio sia una strada imboccata volontariamente, poco importa il motivo, ci si sente pur sempre un po’ Odìsseo, seduto sulla spiaggia di Ogigia, i sensi ricolmi della splendida Calipso, ma in preda a spasmi per la sua Penelope, umile regina tessitrice.
L’Italia è Penelope, e per accorgersene basta pensare alle meraviglie che si sono mancate trascorrendo oltralpe il carnevale: zeppole, castagnole, chiacchiere, frappe e cicerchiata a profusione, senza contare il numero di feste carnascialesche tra cui poter scegliere per festeggiare mascherandosi con gli amici, sfogando lo spirto goliardico e teatrale ch’entro mi rugge.
Certo, vale la pena fare un salto a vedere il Carnevale di Nizza: sicuramente è bellissimo. Sì, le crêpes sono deliziose, sia quelle alla Nutella che quelle salate farcite al prosciutto e al groviera.
Ma a carnevale ci vogliono le porcherie fritte ricoperte di granella di zucchero che al primo morso ricopre le labbra, facendo diventare la bocca tutta bianca come quella di un clown, ci vogliono le delizie mielate che appiccicano tutti i denti e fanno subito salire la glicemia e il buonumore, ci vogliono i coriandoli infilati dappertutto, pure nelle mutande, le stelle filanti tra i capelli e bambini in maschera a tutti gli angoli delle strade.
Che fare? Lasciare che la nostalgia prenda il sopravvento facendo diventare sgradevolmente campanilisti? No, grazie, è una disposizione d’animo di pessimo gusto da cui è meglio rifuggire, salvo che per la questione bidet.
Forse è il momento propizio per andare alla ricerca di qualche ghiottoneria locale, che sia diversa dalla solita brioche, dal solito pain au chocolat e anche dalla crêpe che, per quanto gustosa e tipica della stagione, oramai non fa più notizia.
Si schivano le grandiose charlottes che fanno tanto Trianon de Versailles, si evitano i macarons, una sciccheria per ricche rampolle dell’Upper East Side di New York, si mette da parte la celebre galette des rois, visto che l’Epifania è passata da un pezzo. Che fare? Sfogliare i libri di cucina regionale è la cosa più giusta: servirà a trovare ispirazione per comperare prodotti locali, che è l’unica soluzione al sottile senso di colpa che accompagna ogni acquisto alimentare: sarà a km 0? Sarà bio? Sarà senza olio di palma? Sarà senza olio di colza?
Un qualsiasi libro di cucina provenzale lo si trova in una qualsiasi libreria. Anche le edicole ne vendono diversi. Se si dà un’occhiata alla sezione dedicata alla presente stagione e alle golosità più tipiche, saltano all’occhio tre ricette, ciascuna di esse legata a storie e tradizioni affascinanti.
Si prendano ad esempio les navettes de Marseille: questi dolci dal sapore di fior d’arancio sono preparati specialmente per la festa della Candelora (2 febbraio). Prima dell’alba l’arcivescovo di Marsiglia conduce una processione in memoria della presentazione di Gesù al Tempio e benedice le candele, simbolo della luce e della salvezza portate dal Cristo. Dopo aver detto messa, l’arcivescovo si dirige a rue Sainte e procede alla benedizione del Four des Navettes. Questa boulangerie ha qualcosa in più rispetto a tutte le altre: oltre ad essere più antica della Repubblica Francese (fu fondata nel 1781), da più di duecento anni produce le navettes sempre allo stesso modo, mantenendo l’antica ricetta segreta e garantendo il gusto vero di questi dolci della Candelora. Sembrano essi stessi delle candele: lunghi circa quindici centimetri e costituiti di una pasta robusta e profumata, si conservano addirittura per un anno intero. Sono gli unici ad avere questa magica caratteristica. Infatti negli altri forni di Marsiglia si possono acquistare delle navettes di altro tipo, più corte e di forma molto simile alla chiglia di un vascello, hanno una pasta molto friabile e possono essere aromatizzate al fior d’arancio o all’anice: buonissime ma “tarocche” rispetto al prodotto sfornato da secoli (è proprio il caso di dirlo) dal Four des Navettes.
La leggenda vuole che dietro l’invenzione di questi gateaux ci sia la nave senza remi sulla quale giunsero in Francia le tre Marie, approdando esattamente a Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue. Assieme ad esse venne una serva egiziana di nome Sara, detta Sara la Nera che, sebbene non sia stata canonizzata da nessuna confessione cristiana, è venerata come santa dalla comunità gitana della regione. Per maggiori informazioni: http://www.imninalu.net/tradizioniRom.htm
Le navettes del forno marsigliese Le four des navettes
Un altro dolce tipico della Provenza che può soddisfare il palato del goloso in crisi di nostalgia per le ghiottonerie italiche è il Calisson d’Aix. Aix-en-Provence… più la si conosce e più segreti nasconde! Queste sucreries alle mandorle e alla frutta candita, così morbide che si sciolgono in bocca, hanno una storia italica alle spalle. Infatti pare che la ricetta sia stata esportata oltralpe solo nel XVI secolo e che sia invece originaria di Venezia: ci sono documenti in latino medievale e in italiano del duecento che parlano di un dolce di nome calisone, fatto con mandorle e frutta secca. Una curiosità: a Creta, isola che per molto tempo è stata dominata dalla Serenissima, si prepara un dolce fatto con mandorle e spezie che si chiama kalitsounia. Queste notizie, molto prevedibilmente, sono state trovate su Wikipedia, ma se si vuole approfondire si può cercare un testo a cui la stessa enciclopedia Wiki fa riferimento: “Calissons d’Aix, Nougats de Provence”, di Patrick Langer, edizioni Equinox.
Calissons d’Aix
La terza ghiottoneria che non può deludere è detta croquant aux amandes de Provence. Nella tradizione dolciaria del sud francese le mandorle vanno forte, non c’è che dire. Un po’ come nel sud italiano, dove cassata e marzapane sono i re dei dessert. I croccanti provenzali sono specialità della biscotteria secca che, con numerose varianti, rientra nell’alveo dei “brutti ma buoni” o “spaccadenti”, solo col fine di giustificare l’abbinamento eccellente di queste specialità con un vino liquoroso in cui inzupparle. Proprio come i nostri cantucci con vin santo.
I croccanti alle mandorle di Provenza
La nostalgia si è affievolita, si sopporta meglio la lontananza da casa e dagli affetti, anche se nei sogni torna sempre a fare visita il profumo di delizie fatte in casa dalla nonna e legato a dolci ricordi d’infanzia. Ci si consola con qualche dolcezza gallica, rendendosi conto che, in fin dei conti, sia italiani che francesi se la sanno ben godere a tavola, senza nulla togliere all’uno o all’altro: che si tratti di vino, pasta, pizza, carni, pesci, formaggi o dessert non è un caso che ci si consideri cugini germani, anche con quella rivalità e notevole urto di nervi che c’è tra Paolino Paperino e Gastone il fortunato.
Buon mercoledì delle ceneri a tutti: inizia la Quaresima. O la dieta. In ogni caso i preti indosseranno paramenti viola e i guitti piangeranno miseria.