In questa pagina desidero pubblicare un racconto che scrissi nel gennaio del 2016 e col quale partecipai a qualche concorso letterario, inviandolo per il premio nelle sezioni teatrali.
Si tratta di un monologo, o di un racconto in prima persona. Potrebbe essere rappresentato sul palcoscenico così come esser letto comodamente sul divano di casa propria.
A voi la scelta.

Pardon, monsieur, non l’ho fatto apposta

Le sono stato sempre accanto, fedelissimo e leale, talvolta assai impietoso, dando prova di franchezza ed onestà, anche a costo di essere dimenticato in un angolo e mai più interpellato. Ma la mia piccina mi ha sempre tenuto con sé. Dopotutto, a chi altri avrebbe potuto dire ciò che affidava alle mie orecchie? La famiglia lontana, circondata da falsi amici e serpi infide che le strisciavano sotto le gonne, non aveva nessuno cui esternare ciò che le avvelenava il cuore.

Che graziosa testolina piena di arie e di frivolezze! Adorabile! E impertinente, anche. Avrebbe portato allo sfinimento una santa. Nemmeno la sua prima precettrice resistette: iniziò a concederle favori e coccole a profusione, fino a che non ci si rese conto che la piccina, vezzosa e dolce come un cucciolo, a quasi dodici anni era ancora analfabeta. Io restavo in silenzio, disapprovando quanto vedevo, conscio che siffatta vacuità non avrebbe portato che sventura. Ma dopotutto non stava a me esprimere pareri: mi azzardavo a dire la mia solo se espressamente consultato in proposito. Per limitato che fossi nell’agire, credo di aver compiuto al meglio quanto era in mio potere fare. Talvolta cercavo di giustificarla ai miei stessi occhi, dicendomi che la poverina era trattata così duramente da sua madre, perfino trascurata, che aveva ben diritto ad un po’ di divertimento e di leggerezza nella vita. Le sue insolenze venivano perdonate seduta stante, i suoi capricci assecondati, la sua debordante vivacità ammirata.
Rammento pure l’incontro con quel piccolo impertinente e vanesio, il musicista. Aveva la stessa età della mia bambina. Ho dimenticato il suo nome, ma non la sua scandalosa disinvoltura. La famiglia lo aveva invitato ad esibirsi in casa; erano tutti curiosi: al tempo si faceva un gran parlare di questo bambino prodigio che sapeva suonare un numero non ben precisato di strumenti, anche ad occhi chiusi. Beh, devo ammettere che, per maleducato e insopportabile che fosse, sapeva il fatto suo, quel piccolo demonio. Finita la sua brava esibizione, si inchinò goffo come una scimmietta ammaestrata e scivolò dallo sgabello con malagrazia. La mia passerotta allora scattò come una lepre per andare ad aiutarlo a tirarsi su, dimostrando tutta la sua bontà di cuore. Il piccolo presuntuoso, una volta  rimessosi in piedi, la abbracciò e la chiese in sposa, senza alcun contegno né rispetto. Per carità, erano bambini, ma l’albero giovane mostra sin da subito quale direzione prenderà e se è il caso di raddrizzarlo. Quel mascalzoncello non avrebbe avuto una vita convenzionale né irreprensibile, ne ero certissimo.

Durante quegli anni gai nessuno di noi due sospettava quale avvenire ci stesse attendendo, quale futuro catastrofico. Poi successe la tragedia, col trambusto che ne seguì: il vaiolo colpì tutta la famiglia, ma grazie a Dio la mia farfallina fu risparmiata. Non ho mai compreso che cosa accadde di preciso, fatto sta che l’epidemia sconvolse i futuri di molti membri della casa. Le affibbiarono un fidanzato, alla mia passerotta, uno straniero che nessuno aveva mai visto se non in ritratto, e da un giorno all’altro arrivò il nuovo precettore, il religioso con la erre moscia. Le cose cambiarono, per la mia piccina, e in modo drastico. Era importante che si costruisse un’educazione solida e raffinata in poco tempo, visto che si prospettava un trasferimento definitivo. Fu anche per questo motivo che accogliemmo in casa una pletora di “esperti”, come li chiamavano in famiglia, tutti con quel disgustoso accento da vecchia zitella pettegola. Gli esperti le infilarono in bocca pinze, ferraglia e viti. Ho ancora nelle orecchie le urla di dolore della mia bambolina, quando quei dannati cerusici, tutti vestiti di nero, si chinavano sulla sua boccuccia, adunchi come avvoltoi famelici, cavandole sangue dalle gengive e strappandole denti che, a loro giudizio, “non servivano”. Si è mai sentita una cosa simile? Se il buon Dio li ha messi in bocca, non sta all’uomo cavarli dicendo che “sono inutili”.
È vero, la mia farfallina non aveva un bel sorriso, lo devo ammettere. Anzi, glielo ripetevo spesso, specialmente quando mi domandava un parere in proposito, ed io, quanto a questo, sono sempre limpido e cristallino. Ma mi domando se una dentatura diritta e un sorriso d’angelo valessero tutto quel dolore e quel sangue.
Al tempo seguivo con apprensione lo svolgersi degli eventi, celando il timore che mi serpeggiava dentro. Subodoravo grandi manovre e cambiamenti definitivi. L’apice dell’assurdo si raggiunse nell’inverno dei suoi quattordici anni, quando d’improvviso la madre, forse presa dai rimorsi, si diede la pena di conoscere sua figlia. Qualche volta dormivano addirittura nella stessa stanza. Io vegliavo, riflettendo su quanto stava accadendo nella nostra vita.
Poi un bel giorno partimmo. Era primavera, abbandonammo casa verso un futuro incerto, sempre uniti, lei ed io, sempre insieme. Per un istante temetti che ci avrebbero separati: fu un momento di panico per entrambi, quando ci dovemmo sottoporre allo sciocco rito tradizionale della rimessa. Ma la farfallina del mio cuore fu molto brava ed astuta, in quell’occasione, tanto che  riuscì a celarmi agli occhi di tutto il ridicolo corteo che era venuto a prelevarla al confine.
L’arrivo nella nuova realtà fu disseminato di ipocrisia e di menzogne. Lo posso dire con cognizione di causa, giacché questi due tarli che affliggono l’esistenza umana sono, in un certo senso, la mia specialità.
La cosa più grottesca di cui fui testimone fu l’incontro con quello che oramai era diventato suo marito: un completo imbecille. Non sapeva di avere qualcosa che penzolava in mezzo alle gambe, figuriamoci conoscerne la funzione. Fu a causa di quel babbeo e della sua incompetenza che avemmo innumerevoli grattacapi, nella nuova casa e nel nuovo mondo. Gli schifosi e puzzolentissimi vecchiacci imparruccati, le lardose damine lubriche e discinte non aspettavano altro che di vedere quel fesso impotente infilarsi nel letto della mia dilettissima e nel suo fiorellino rosato. Fui davvero sollevato quando lo stolto si mise sotto le coperte e, non sapendo che fare, cadde addormentato, tra le risate di tutti.
Per anni non fecero niente che fosse degno di nota in una coppia sposata. Fosse stato un vero uomo e ancor più una persona intelligente e di spirito, mi sarei dispiaciuto, ma, vista la sua imbecillità irrefrenabile, avevo solo di che gioire per questo matrimonio in bianco.
Lei iniziò ben presto ad annoiarsi e a trovare ogni sorta di svago in frivolezze e vanità. Se ripenso ai vestiti improponibili e nemici del buongusto che si faceva fare su misura, alle acconciature volgari e torreggianti da sotto le quali mi faceva visita ogni giorno, realizzo in toto quanto dovesse sentirsi infelice e vuota. Riempirsi la giornata di stupidaggini, di sperperi e di divertimenti sciocchi fu il solo modo che trovò per distrarsi dal pensiero della sua triste condizione, invero. Non dialogavamo molto, in quel periodo. Ci scrutavamo a vicenda in silenzio, ma le leggevo negli occhi solitudine e nostalgia, talvolta sfumature di paura vera e propria. Ammetto che la disapprovazione con cui osservavo il suo agire mi impediva di esserle di conforto. Fu un grosso errore, da parte mia, limitarmi a mostrarle quanto male portasse il suo comportamento alla sua stessa posizione sociale, senza esprimere chiaramente l’idea che mi cresceva dentro: un cambiamento di attitudine netto ed esplicito sarebbe stato il passo da compiere per risolvere molte questioni spinose. Una tra tutte, la procreazione di un figlio, fatto che stava a cuore a tutto il paese e che destava preoccupazione nel cuore di molti tra quelli che contavano. La madre glielo ripeteva spesso in prolisse e caustiche lettere che, appena finite di leggere, scatenavano crisi di pianto isterico. Anni di dispiaceri, furono quelli: malelingue senza freno la dipingevano come una lussuriosa sgualdrina dedita a pratiche orgiastiche e a perversità d’ogni tipo. La ricoprivano di fango e ingiurie. Tacevo dispiaciuto, incapace di arrecare aiuto, testimone silente di un lento disfacimento psicologico. La morte del suocero fu addirittura devastante: nuove responsabilità e nuovo titolo, un tripudio di squallida ipocrisia , disapprovazione e sospetto che la circondavano come una nube mefitica. Riprendemmo a parlarci con maggior distensione da parte di entrambi solo dopo la visita del fratello. Venne quasi in qualità di ispettore del talamo: la mia piccina e quello smidollato del marito erano sposati da sette anni e non avevano accennato a consumare la loro unione. Urgeva un intervento deciso. Parve dunque che il fratello fosse riuscito nell’intento di istruire quel baccalà su come usare il suo pendaglio di carne, perché pochi mesi dopo la sua visita mi resi conto che la mia rosellina stava per far fiorire un bocciolo.

Il bocciolo si schiuse alla fine dell’autunno, una bella pargoletta rosea e strillante. La mia passerotta era ormai mamma aquila, volava in alto, proteggendo la sua piccola da minacce e insidie, la maggior parte delle quali rappresentata dai suoi stessi capricci, che non aiutavano a migliorare la sua immagine pubblica. Io riflettevo a lungo su quell’immagine e  d’altra parte ho sempre trovato che un certo rigore fosse necessario per chiunque, nell’ambiente del Palazzo, anche al mio fiorellino, che pure era così insofferente e ribelle.

La gioia per una nascita può essere adombrata solo dal dolore per una perdita: sua madre morì, lasciandola in un’afflizione inesprimibile, sebbene non comprendessi come siffatta tirannica figura, fredda e distaccata fino all’inverosimile, potesse lasciar tanto compianto dietro di sé.
Fu un gran circolar d’anime e di cuori, quel momento della nostra vita: una nuova era venuta alla luce, una vecchia era spirata. Ancora, dopo pochissimo, qualcun altro annunciò la sua presenza con una bella rotondità del ventre. Il secondo bocciolo stava per schiudersi: venne al mondo un maschietto, stavolta. Tutti se ne rallegrarono, me compreso, perché la reputazione della mia prediletta era finalmente salva e la sua posizione ben solida. Non avremo di che preoccuparci, pensavo, fiducioso e ottimista fino alla stoltezza.

Un anno dopo eravamo di nuovo in precario equilibrio: la mia pulcina aveva deciso di nominare governante dei pargoli la sua favorita e pupilla a Palazzo. In tutta sincerità, non ero stato capace di offrire un parere oggettivo, allorché il mio fiore mi interpellò: la bellezza della sua ancella, famosa in tutto il paese, mi aveva un po’ annebbiato le idee, e tendevo a concedere piena fiducia ad un volto d’angelo come il suo, con quegli occhioni violetti come l’aurora.
Purtroppo, la scelta di affidare la cura dei fils alla sua favorita, malvista da tutti coloro che contavano, non fece altro che fomentare l’astio nei confronti della mia bella passerotta da parte dei membri del Palazzo e dei cittadini: l’invidia e la gelosia che si scatenarono gettarono scredito sulla famiglia. Forse fu anche per tale clima di tensione e di disapprovazione che la mia piccina, un anno dopo, subì la peggiore sventura che possa mai accadere ad una madre: il terzo bocciolo spirò in grembo e tristi mesi passarono prima che ella potesse riprendere ad illuminarmi colla sua mezzaluna di denti corretti a ferraglia. Assieme al sorriso, tornarono i capricci e le idee strampalate. Di nuovo, un’ondata di maldicenze e chiacchiere sozze e infamanti la ricoprirono, tutto a causa di un’operetta musicale che aveva tanto insistito a far mettere in scena per amor dell’arte e della bellezza. Calcava le scene con leggiadria e grazia, brillando come una stella sulle assi di legno del suo piccolo teatro, una cosina da niente, un giocattolo dorato e sfarzoso con cui si intratteneva incurante di quanta disapprovazione destassero la sua ostinazione, la sua testardaggine e, specialmente, la sua dissipatezza. Era da poco diventata mamma per la terza volta; grazie a Dio e a San Luigi era riuscita a riprendersi dall’orrida esperienza dell’aborto: mise al mondo un terzo aquilotto, un altro maschietto, una gioia infinita, una garanzia ancor più solida di salvezza e sicurezza, per lei, per me, per la famiglia, non fosse che appena qualche mese dopo il parto le cose iniziarono a precipitare davvero, per non tornare mai più alla normalità.

Iniziò tutto col maledetto affaire della collana. Le malelingue ne avrebbero discusso per secoli, se la mia piccina non avesse saputo gestire la cosa da persona matura e responsabile. Si arrivò ad un chiarimento pubblico, un processo che tolse ogni dubbio sulla sua innocenza: no, lei non aveva dato ordine d’acquistare quel dannatissimo collier di diamanti e no, non era in alcun modo legata da rapporti di amicizia ed intimità a quell’impostora. Se il cardinale si era lasciato abbindolare da questa donnaccia, la cosa non la riguardava.
Lei aveva più e più volte rifiutato quel ninnolo da un milione e seicentomila livree che suo marito avrebbe tanto voluto offrirle in dono, ma ecco che quella delinquente, avida di denaro e di fama, aveva sfruttato la cattiva reputazione della mia bambolina per peggiorare ulteriormente le cose e intascare soldi e diamanti. Ci finì di mezzo pure quel noto lestofante, truffatore, millantatore, massone, alchimista, lenone e disgustoso ipocrita italiano. Pare che, almeno nell’affaire della collana, si fosse rivelato innocente. Pare. Io, per me, l’ho sempre ritenuto un farabutto della peggior specie, e son convinto che abbia avuto un ruolo persino in questa odiosissima frode ai danni della mia piccina. Anche il cardinale fu scagionato, ma almeno la briccona, principale artefice del misfatto, fu acciuffata, flagellata e marchiata con una V scarlatta sul braccio.

La fine fu profetizzata da un accadimento lugubre e di pessimo auspicio. Il primo maschietto della mia colombella perì di consunzione, causando un lutto che accompagnò gli animi della famiglia verso il periodo più buio e fatale.

Gli eventi si fecero così caotici e confusi che io stesso, pur avendoli vissuti in prima persona, faccio fatica a collocarli nel giusto ordine, pur avendovi riflettuto approfonditamente. Lo sconvolgimento che seguì e che ci portò drammaticamente alla fine aveva il nome di “rivoluzione”, una parola che mette tutt’oggi i brividi, al solo pronunciarla. Ho avuto sin da subito l’impressione che suo marito, quell’inetto indegno del suo titolo e del sangue che gli scorreva dentro, avesse giocato nel peggior modo possibile le sue carte, restando inoltre senza alcun asso nella manica. Il peggio iniziò dopo che la folla imbizzarrita, fomentata da pazzoidi, ribelli e senzadio, attaccò la prigione più importante della città, linciando la guardia, decapitando il capitano, apponendo su delle picche le teste mozzate, portandole a spasso per le strade e liberando ben sette prigionieri che lì vi erano detenuti, tra cui un libertino della peggior specie e dei vili falsari. Era estate, e il terrore con cui vivemmo quei mesi di calura mi fa stare ancora male. Agli inizi di ottobre, dopo lunghe settimane di paura e di incertezza, coll’esercito lontano a combattere una guerra contro lo stato vicino, col popolo malcontento che insorgeva, una folla di donne inferocite marciò fino al nostro Palazzo. Se non sapessi che cosa venne dopo, direi che fu quello l’apice dell’affronto e dell’orrore: la mandria di donne che aveva divelto i cancelli ed aveva osato metter piede laddove mai villico o cittadino era stato ammesso ci accerchiò nei nostri appartamenti privati. Quelle vacche puzzolenti e volgari, prive di ogni dignità, insultarono la mia passerotta, vilipendendola con sconcezze e blasfemie disgustose. Fummo obbligati a lasciare il Palazzo e a far ritorno in città, dove ci rifugiammo  al Castello, con la paura che intaccava le ossa come una muffa malefica e corrosiva. Eravamo guardati a vista dal nuovo corpo armato rivoluzionario, composto da beceri disertori del vero esercito nazionale. Ci stavano trattando come delinquenti qualsiasi.

Allora osai dire la mia senza essere stato interpellato. La situazione lo richiedeva e non esitai a suggerire una fuga segreta che ci avrebbe portati in salvo presso i nostri amici all’estero. Purtroppo, sebbene il piano fosse stato ben architettato e il viaggio fosse stato organizzato in modo da spostarsi nottetempo,  fummo riconosciuti e arrestati mentre ci dirigevamo verso il confine. La tentata fuga finì con demolire ogni speranza di salvezza: non riuscì a farci riguadagnare credito nemmeno la firma dello smidollato, apposta dietro coercizione, su un documento che sconvolgeva alla radice tutto il mondo come era stato conosciuto fino ad allora. Quell’ignobile pezzo di carta fu chiamato “Costituzione” e, nel siglarlo col suo nome, il povero sciocco firmò la sua condanna a morte. La mia passerottina non mi dava ascolto quando le dicevo che un secondo tentativo di fuga era l’unica ancora a cui aggrapparsi, preferendo invece adempiere al suo ruolo di consorte come non era accduto prima. A posteriori, ammetto che la sua coerenza e fedeltà furono ammirevoli. La osservavo agire con una maturità e una consapevolezza che non le avevo mai visto brillare negli occhi. Era bella, sebbene i catastrofici eventi che vivevamo lasciavano marchi permanenti sul suo volto: iniziò ad invecchiare precocemente. Mi accorsi, senza sottolinearlo perché non volevo intristirla, che fili bianchi si moltiplicavano nel crine e che rughe di preoccupazione le solcavano la pelle chiazzata di paura.
La fine giunse con un ennesimo attacco alle loro persone: un’ondata di popolani insorti attaccò il Castello. Offesero nuovamente la famiglia, rimasta impassibile e regalmente distaccata di fronte a tale sfacelo della Civiltà. Nel giro di pochi mesi fummo deportati ad una prigione, nella torre di un monastero. Io ero sempre lì, vidi tutto, vidi tutti, registrai ogni accadimento, compresa ogni lacrima versata dalla mia piccina, oramai rassegnata al peggio, per lei, per il marito e specialmente per i suoi piccoli aquilotti.
Iniziò il processo. Prima toccò a quel povero insensato del consorte, sottoposto alla vergogna della sbarra, giudicato da una sfilza di bruti, libertini, atei, miscredenti, eretici e rivoluzionari, la feccia del mondo, lo schifo del creato, l’immondizia dell’umanità. Per quanto lo avessi così apertamente disapprovato in quei lunghi anni di mediocrità e lanosi belati, provavo tanta pena e tanto dolore per lui, specie quando, giunto alla resa dei conti, si rivelò pieno di coraggio e di fermezza. Condannato da una giuria di empi assassini e farabutti, pur continuando a dichiararsi innocente, morì da “semplice cittadino” per opera di quella macchina infernale che decollava la gente, ideata da un dottorucolo di campagna, anch’egli senzadio né umanità.

Sapevo che era questione di poco. La mia farfallina, provata all’inverosimile, era riuscita a celarmi alla vista delle guardie un’altra volta: mi tirava fuori di nascosto e mi interpellava più per piangere che per chieder consiglio. Ma dopotutto quale consiglio avrei potuto offrirle? Quale conforto? Si stringeva ai suoi figlioli e alla cognata, alternando momenti di pianto disperato a istanti di pacata rassegnazione.
Fu la volta del suo processo, una vergognosa farsa, uno spettacolo da teatrino di quint’ordine, la peggior commedia mai messa in scena nella storia umana: giunsero perfino ad accusarla d’incesto nei confronti dei suoi propri figli! Lei, la madre più amorevole e santa che avessi mai visto. Ammirai la dignità regale ed il contegno impassibile che riuscì a mantenere fino all’ultimo giorno.

Fui con lei anche in quel momento: mi nascose sotto la veste bianca che le fu ordinato di portare. Il volto completamente sconvolto, lo sguardo fisso e distante, i capelli stopposi e grigi, tagliati malamente fino alla nuca, celati sotto una cuffietta di stoffa ruvida, venne fatta salire su un carretto, le mani legate dietro la schiena, trasportata lentamente attraverso le vie della città fino alla piazza che un tempo aveva visto le glorie e i fasti del vecchio mondo, proprio all’inizio del viale che conduceva al Castello. Scendemmo dal carretto, insieme, la folla attonita che osservava ogni suo movimento. Dignitosa e rassegnata salì i gradini del patibolo, fino a quell’aggeggio infernale che aveva già stroncato la vita al marito. Purtroppo un tacco della calzatura si incastrò e lei inciampò sui piedi del suo carnefice. Con la grazia di cui era dotata si scusò: «Pardon, monsieur, non l’ho fatto apposta. ».

Le ultime parole di un angelo. Fu decollata rapidamente, e allo staccarsi della testa, la marea di gente venuta ad assistere si levò in un boato unanime e perverso.

Io restai attaccato al suo cuore, come avevo sempre fatto, sin da quel lontano giorno in cui mi aveva celato agli occhi indiscreti del corteo venuto ad accoglierla nella sua nuova terra. Rimasi lì, accanto al suo seno quando le sue spoglie furono sepolte in un’ignominiosa parodia di funerale: gettata senza rispetto né riguardo in una lurida fossa comune, insieme a corpi già in disfacimento, esalazioni mefitiche e parassiti e vermi che s’apprestavano a banchettar delle sue carni. Nessuno fece caso a me: ebbi a rallegrarmene in un primo tempo, sconvolto da quanto avevo visto, incapace di concepire un mondo in cui la mia passerotta non era più, attonito quando la terra iniziò ad esser gettata su di noi due, lei immobile e fredda, io infranto in mille pezzi sparsi sotto il suo corsetto a causa della violenta caduta nella fossa.

Si dice che uno specchio frantumato porti sette anni di guai. Quando mi spaccai, piccolo miroir decorato in madreperla, vezzoso dono di una madrina alla propria figlioccia infante, seppi che i sette anni di sventure, invece, erano definitivamente cessati per entrambi e che solo la pace ci attendeva al di là.