De amore gallico a Parigi

Oggi De amore gallico vi porta con sé a Parigi!

La settimana scorsa è stata infatti occupata da un favoloso viaggio nella capitale francese, durante il quale ho avuto modo di rivedere luoghi e cose già visitati con grande piacere in passato, ma soprattutto di scoprire posti nuovi e sorprendenti. Pronti? Si parte!

La prima tappa, obbligatoria anche per l’emplacement dell’hotel presso cui ho alloggiato (Hotel Les Dames du Panthéon), è stato il tempio civile della Francia, il Panthéon. Come già sentito nel cuore in precedenza, per me codesto monumento è un luogo che incute timore, sia per le dimensioni, i volumi dello spazio, sia per la sua importanza nella storia civica francese. Ad ogni modo, svegliarsi tutte le mattine ed affacciarsi sulla piazza di fronte a siffatto sesquipedale sacrario è stata una delle cose più belle del mio soggiorno. Ecco qualche scatto di quella magnifica giornata:

Ovviamente una mirabile passeggiata per il Quartier Latin, chiamato così perché, essendo il circondario dell’università, tutti gli studenti e i professori parlavano il latino, con visita alle sue favolose librerie è stata d’obbligo. Ho proseguito fino al Jardin du Luxembourg, per poi dirigermi verso Saint Sulpice, una delle chiese parigine che preferisco e dove fu anche battezzato Charles Baudelaire, Saint Germain des Prés, nei cui dintorni ho fatto una visita all’Officine Universelle Buly, un luogo da alchimisti e stregoni d’altri tempi presso cui acquistare dei lussuosi cosmetici. Tappa poi verso i bouquinistes del lungo Senna, il luogo dove sorgeva la Tour de Nesle e la mitologica libreria Shakespeare and Company, a fianco alla cattedrale di Notre Dame.

Il giorno seguente è stato all’insegna di due mie grandi passioni: i cimiteri e l’ebraismo. Tappa al Père Lachaise, in cui non ero stata in visita nei miei precedenti soggiorni, per quanto strano possa sembrare. Impressionante è il muro esterno del cimitero, percorso da un’installazione che riporta tutti i nomi di tutti i caduti della sola Parigi della Prima Guerra Mondiale, in ordine alfabetico e divisi per anno di guerra.

Avrei un video dettagliato di questa installazione, grazie al quale potreste rendervi conto della quantità immane di persone che morirono al fronte e successivamente, ma non posso caricarlo nel blog. Vi dovrete fidare delle mie parole quando affermo che è un posto presso cui andare e raccogliersi in silenziosa riflessione; leggere quei nomi è stato particolarmente toccante, per me, anche alla luce del periodo dell’anno in cui ho compiuto questo viaggio, pochi giorni dopo il 4 novembre, data del cessate il fuoco sul fronte italo-austriaco, e in concomitanza con l’11 novembre, armistizio sul fronte occidentale (e mio compleanno).

Al Père Lachaise mi sono concentrata su tombe di gente non famosa, la cui bellezza mi ha suggerito alcuni scatti di carattere lirico…

Il giorno in cui ho compiuto questo pellegrinaggio era il 9 novembre, anniversario della scomparsa di Apollinaire. Grande gioia è stata per me ritrovarmi presso la sua tomba insieme a tanti altri appassionati, che volevano rendere omaggio al poeta in occasione di questa ricorrenza. Sono andata a trovare anche Marcel Proust, Ingres ed Abelardo ed Eloisa.

La giornata è proseguita con una visita particolare ed importante per me: dal Père Lachaise sono andata a piedi fino al numero 209 di rue Saint Maur. Si tratta di un immobile qualunque dell’XI arrondissement, ma la cui storia è stata soggetto di un libro e di un reportage a cura della giornalista Ruth Zylberman. La lettura del saggio e la visione di questo documentario sono stati fondamentali nella mia personale ricerca della storia e delle storie ebraiche europee. Il 209 di rue Saint Maur custodisce infatti, tra le sue mura e nel selciato del cortile, le vicende di tanti parigini dal momento della sua costruzione fino ad oggi: tra i vari abitanti si ricordano un comunardo che cadde nell’ultima tragicissima settimana di esistenza della Comune di Parigi, un membro dei servizi segreti che era informato circa alcuni fatti che avrebbero potuto scagionare il Capitano Dreyfus, tante povere famiglie di emigrati degli anni ’20 e gli ebrei (forse la maggior parte degli inquilini negli anni ’30) che o si nascosero fortunosamente, o furono deportati e non fecero mai ritorno dai campi di sterminio. Se avete piacere di scoprire queste storie e di commuovervi profondamente, vi consiglio di leggere ‘209, rue Saint Maur, autobiographie d’un immeuble’ e di guardare il reportage ‘Les enfants du 209 rue Saint Maur’.

Quando sono arrivata l’emozione era grande. Non nego di aver avuto un nodo alla gola strettissimo e di aver versato qualche lacrima varcandone la soglia e addentrandomi nel suo ventre. Il concierge, Momo, lo stesso che ha accolto tanto spesso la giornalista Ruth Zylberman durante le ricerche, era al suo posto anche quel giorno, e ho avuto modo di scambiare qualche parola con lui. Non dimenticherò mai questo momento, resterà inciso nel mio cuore per sempre.

Il richiamo ebraico per me è irresistibile, ecco allora che ho fatto rotta verso il Marais, dove ho visitato il Mahj, il museo d’arte e storia ebraiche. In tutta onestà ne sono stata leggermente delusa, perché mi aspettavo che avesse un focus più potente sulla storia degli ebrei di Francia, e non dell’ebraismo lato sensu. Mi sarebbe piaciuto un indirizzo un po’ più specifico della collezione permanente, con un chiaro rimando alla storia francese. Nondimeno mi sono goduta la visita e ho apprezzato moltissimo la parte sull’affaire Dreyfus e quella sui costumi tipici delle donne sefardite e la presenza di uno Chagall. Ecco qualche scatto:

Il giorno successivo ho proseguito il mio percorso cimiteriale in modo inaspettatamente personale, addirittura con un legame familiare importante.

Cominciamo dalla visita a Montmartre, che mi ha riportata nel Sacré Coeur, chiesa eretta per espiare i peccati della Comune, in stile neo-bizantino, e che onestamente è più bella fuori che dentro. Discesa a piedi per le stradine di quel vicoletto, con un ciao-ciao al Moulin de la Galette, il ristorante che compare anche in uno dei quadri più celebri di Renoir.

Ero già venuta due volte al cimitero di Montmartre prima di questa visita; la prima volta con mia madre, per i miei diciotto anni, e la seconda col mio fidanzato di jeunesse, da neo-laureata. Ero affascinata dalle personalità che vi sono sepolte, dall’atmosfera romantica e decadente del luogo.
Chi lo sapeva che qui riposano le spoglie degli antenati di colui che poi sarebbe diventato mio marito? Sono passata per ben due volte di fronte alla cappellina della famiglia Vaubourzeix, in vita mia, senza sapere che quel cognome così particolare sarebbe divenuto importante per me. E non finisce qui, perché non si tratta di una famiglia qualunque! Infatti all’entrata del cimitero ci hanno spiegato che la cappelletta è catalogata come monumento di interesse per la storia parigina, in quanto vi riposano le spoglie di una personalità storica: si tratta dell’antenato di mio marito, Hippolyte Vaubourzeix, orafo e gioielliere a Parigi nel XIX secolo, con una boutique al numero 19, rue de la Paix.

Che storia incredibile…

Oltre alla cappellina di famiglia sono passata a visitare altre persone a me care sepolte lì (non tutti quelli che avrei voluto, viste le tempistiche, ma alcuni sì) e ho fotografato tombe israelitiche molto interessanti. Ah, ho anche visitato la tomba dei Sanson, i boia della rivoluzione.

La serata è stata meravigliosa, perché sono andata al Teatro de la Comédie Italienne, a rue de la Gaieté. Lo spettacolo à l’affiche si intitola ‘Et vive la Commedia dell’arte!’, lo consiglio a chiunque passi per Parigi nei prossimi mesi.

Il giorno seguente, 11 novembre, mio compleanno, ho avuto modo di trascorrere qualche ora in compagnia di Leonardo, Raffaello, Mantegna, Giotto, Carracci, Caravaggio, Veronese, Perugino, Canova, Paolo Uccello, Delacroix, Ingres, David, Gericault… Proprio così: la mattina sono stata al Louvre, dove ho rivisto le pièces de resistance della collezione, specie tutte quelle opere che Napoleone ci ha rubato vergognosamente. Ammetto di esser quasi svenuta di piacere panico, come un attacco della sindrome di Stendhal.

Ho apprezzato molto anche il nuovo allestimento dei gioielli reali nella Galleria d’Apollo e la nuova sistemazione della galleria delle statue greche, con la Venere di Milo regina in fondo alla sala.

Il pomeriggio ho festeggiato il mio compleanno, e la sera mi sono goduta una cena al Georges, ristorante sul tetto del Centro Pompidou, con una vista molto bella su Parigi. Un compleanno memorabile!

Venerdì è stata una giornata interamente dedicata al Castello di Versailles. Prima di andare a prendere la Rer, però, sono riuscita a vedere due posti, a Parigi, a cui tenevo in modo particolare. Il primo è la Chapelle de la Medaille Miraculeuse, di cui non ho scattato foto perché è stata una visita spirituale. Il secondo è stato l’hotel Lutetia, poco lontano dalla Chapelle.

Questo albergo di lusso è molto importante nella storia ebraica di Parigi, perché quando i lager nazisti furono liberati e i pochi prigionieri che erano stati salvati poterono tornare a casa, fu proprio al Lutetia che i sopravvissuti parigini furono ricoverati per mesi, al loro ritorno in città. Dall’aprile al luglio 1945 centinaia di famiglie che si erano salvate fortunosamente, nascondendosi o scappando, venivano ogni giorno ad aspettare madri, padri, figli, fratelli, sorelle, cugini, mariti, mogli… insomma, ad attendere e a sperare che tra i pochissimi sopravvissuti vi fosse un loro caro. Ecco la foto dell’entrata del Liutetia e della placca commemorativa.

Dopo questa deviazione cittadina, via a prendere la Rer, direzione Versailles Chateau! Purtroppo la sala della pallacorda è attualmente chiusa per restauro, ma sono stata felice di visitare il Grand e il Petit Trianon, che nel viaggio precedente avevo purtroppo negletto.

Sabato il tempo è stato meno clemente: sebbene non sia piovuto a catinelle, le nuvole sono state le compagne fedeli della giornata. Ma non mi sono lasciata scoraggiare nemmeno un po’. Capatina veloce a Trocadéro per una foto con la Lady di Ferro a parte, sono andata a trovare una persona a me carissima al Cimitero di Passy, poco lontano:

E poi via dritta alle catacombe di Parigi, un luogo che desideravo tantissimo visitare e che mi ha dato tanto materiale per la prossima stagione dei podcast di De amore Gallico. Per il momento accludo solo qualche scatto, senza approfondire la materia: stay tuned, ben presto chiacchiereremo assai su questo argomento!

Nel pomeriggio di sabato, oltre ad essere tornata al Marais per delle compere, sono passata nel quartiere Bastille per visitare una bottega davvero eccezionale: la Galcante. Si tratta di un’emeroteca storica che conserva tantissimi giornali e riviste antichi. Potete trovare Le Figaro o Le monde del giorno in cui siete nati, per fare solo un esempio. Davvero un indirizzo parigino imperdibile.

Sabato sera mi sono goduta un bellissimo spettacolo al teatro De la Michodière, a due traverse dall’Opéra Garnier. A l’affiche la commedia ‘Le système Ribadier’ di Georges Feydeau. Una serata divertente, attori di altissimo livello, un testo che ancora oggi fa ridere a crepapelle. Ho concluso questo soggiorno in una brasserie di fronte al Teatro dell’Opera, un locale chiamato ‘L’entracte’ il cui mobilio d’antan si addiceva perfettamente al sapore di fin de siècle della soirée.

Visto che rue de la Paix era a qualche metro da lì, sono passata a dare un’occhiata al numero 19, dove sorgeva la boutique del gioielliere Hippolyte Vaubourzeix. Ancora oggi i locali sono occupati da un negozio di bijoux, Waskoll.

In sette giorni ho visitato tutte queste belle cose e ne ho tralasciate forse il quintuplo, ma a Parigi ci si deve sempre tornare e si deve sempre lasciare qualcosa di non visto, non fatto, non visitato per la volta successiva…

Ho già la lista delle cose da fare per il prossimo soggiorno: una visita al Memoriale del Vel d’Hiv, un pomeriggio al Museo d’Orsay, che questa volta ho tralasciato, avendolo già visitato spesso, un giro al cimitero di Picpus, una visita alla Chiesa della Madeleine, un giro più approfondito degli Champs Eylsées, dei grandi boulevard, al primo arrondissement, ma specialmente un giro tematico sui posizionamenti delle barricate della Comune di Parigi, una visita alla sala d’armi Coudurier, al Parc Monceau, alla Conciergerie, a Place Vendome, a Place des Vosges, alla casa di Nicolas Flamel, agli archivi nazionali, una cena al Procope, un pranzo al Moulin de la Galette e poi mostre, mostre, mostre, musei…

Parigi non smetterà mai di piacermi.

Un tour cimiteriale nel Golfo di St. Tropez

Dato che il confinement permette di andare a far visita ai cimiteri e che perciò mi lascia libera di dedicarmi ad una delle mie grandi passioni, ho approfittato per visitare un po’ di camposanti della zona in cui non ero ancora stata e scattare delle foto a tombe antiche, interessanti, misteriose.

Ho il piacere, dunque, di condividerle con i lettori di De amore gallico. Spero che questa galleria di immagini delle mie flâneries cimiteriali vi faccia viaggiare…

In queste due foto, scattate al cimitero di Ramatuelle, si notano le tipiche corone floreali di ceramica, una tradizione tutta francese.

Ogni cimitero che si rispetti ha il suo guardiano a quattro zampe. Anche quello di Ramatuelle.

Il tempo che passa si fa vedere al cimitero di Gassin.

Simboli che parlano del mestiere della famiglia sepolta sotto questo monumento, cimitero di Gassin.

Cognomi particolari, tombe ‘scadute’, tombe di bambini… al cimitero di Gassin ho trovato davvero tante cose interessanti.

Perfino un micio che assomiglia al disegno di Simba fatto da Rafiki ne ‘Il re leone’.

Una fine commovente…

A Grimaud c’è un mulino che domina il paesaggio dietro il cimitero. Tombe senza nome ma ricoperte di vegetazione lussureggiante, sepolcri nascosti nell’angolo più lontano e discreto…

Sepolcri di notevole solennità…

Il guardiano del cimitero di Cogolin è stato disturbato da una paparazza cimiteriale…

Un’interessante discrepanza ortografica che fa domandare… ma c’entra niente il poeta Arthur Rimbaud col villaggio di Cogolin?

Statue che sembrano viventi, epigrafi cancellate di proposito (quale mistero!) come per attuare una damnatio memoriae, sepolcri abbandonati da tempo a Cogolin.

Per concludere con una tomba solenne di un’illustre famiglia di medici e sindaci.

A presto, sempre su De amore gallico, con podcast, articoli, foto e storie interessanti.

Pillola: le croque-mort e il beccamorto, ovvero i francesi addentano mentre gli italiani pungolano

Essendo in periodo di Toussaint, cioè di Ognissanti e morti, oggi parleremo di… becchini.

Perché, se in Italia l’addetto delle pompe funebri che si occupa di tutti i vari aspetti delle esequie lo chiamiamo con goliardia ‘beccamorto’, cioè ‘quello che acchiappa i morti’ (e in tempi di peste nera era un’immagine non così fantasiosa come potremmo pensare) o anche ‘quello che li pungola con uno spillone per vedere se son davvero stecchiti’ (per non rischiare di seppellirne un vivo che poi si risveglia tumulato e al buio), in Francia l’equivalente di questa parola è croque-mort, che significa… ‘addenta-morto’.

Mi è stato riferito che l’origine di questo soprannome scherzoso è sempre il voler controllare che il morto sia ben morto. Solo che, al posto dello spillo, il metodo usato è quello del morso all’alluce!

Cimitero di Ramatuelle

La cosa pone di fronte a numerosi interrogativi, anche se dei buontemponi mi hanno suggerito che la passione gallica per il formaggio può aver influito sulla scelta dei croque-morts della cosa da addentare.

Io resto perplessa, ma anche meravigliata di come le lingue mi portino ogni giorno nuove sorprese e nuove cose da imparare.

Le corone funebri in ceramica sono tipiche dei cimiteri francesi

Pillola: Toussaint di Verlaine

Ces vrais vivants qui sont les saints,
Et les vrais morts qui seront nous,
C’est notre double fête à tous,
Comme la fleur de nos desseins,

Comme le drapeau symbolique
Que l’ouvrier plante gaîment
Au faite neuf du bâtiment,
Mais, au lieu de pierre et de brique,

C’est de notre chair qu’il s’agit,
Et de notre âme en ce nôtre œuvre
Qui, narguant la vieille couleuvre,
A force de travaux surgit.

Notre âme et notre chair domptées
Par la truelle et le ciment
Du patient renoncement
Et des heures dûment comptées.

Mais il est des âmes encor,
Il est des chairs encore comme
En chantier, qu’à tort on dénomme
Les morts, puisqu’ils vivent, trésor

Au repos, mais que nos prières
Seulement peuvent monnayer
Pour, l’architecte, l’employer
Aux grandes dépenses dernières.

Prions, entre les morts, pour maints
De la terre et du Purgatoire,
Prions de façon méritoire
Ceux de là-haut qui sont les saints.

Paul Verlaine

Bonne fête de la Toussaint.

Piazza delle erbe e il mercato del pesce a St. Tropez

A Saint Tropez c’è il mercato del pesce, una galleria che dal porto va verso il vecchio villaggio, sbucando su quella che è chiamata “Piazza delle Erbe”. Sebbene oramai vi si affaccino il bar Senequier con il suo impero bianco e rosso, la boutique di Missoni, un alimentari di lusso e altri negozi di cianfrusaglie, questo angolo del paese mantiene intatto un sapore antico e semplice, che si ritrova nelle vecchie cartoline color seppia o nei quadri dei pittori che a Saint Tropez hanno soggiornato e vi hanno trovato ispirazione. Charles Camoin (1879-1965), ad esempio, pittore marsigliese innamorato del sud, ha ritratto questo angolino in una tela conservata oggi al Musée de l’Annonciade, importante polo artistico del villaggio provenzale.

Charles Camoin “Piazza delle erbe di St. Tropez”, Museo dell’Annonciade

Se si passa per di là la mattina presto, si viene investiti dall’odore fresco, salato, denso e ancora gradevole del pesce appena pescato. I venditori urlano e salutano da dietro i banchi bordati di ghiaccio ed erba scura, stretti lungo questo budello lastricato di sampietrini, col selciato dalla caratteristica forma a botte che lascia colare lungo i lati i liquami ittici.

Paul Signac, “Il temporale”, Museo dell’Annonciade

A partire dal dopo pranzo, la nettezza urbana si occupa di mondare la galleria, spruzzando ovunque dell’acqua in cui è stato disciolto un prodotto igienico dal peculiare olezzo di sciroppo per la tosse.

Il sole gioca coi tetti e le persiane, disegnando poligoni ombrosi sui muri delle case. Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione, epurare la scena dei cassoni dei condizionatori che come dragoni grigi sputano aria calda, dei turisti in canottiera e ciabatte intenti a leccare coni gelato mezzi scioli, dei fari abbaglianti che ammiccano seducenti dalle vetrine lussuosissime. Ecco che l’immagine di una St. Tropez innocente, colorata, laboriosa, allegra e naturale riappare, forse nel modo in cui si manifestava agli occhi del pittore neoimpressionista Paul Signac, che qui acquistò una casa e ne fece il suo atelier.

Albert Marquet, “Il porto di St. Tropez”, Museo dell’Annonciade

È bella, St Tropez, anche se ora si addormenta all’ombra dei grandi yacht dei ricchi che vengono ad ostentare quanto possiedono in questo piccolo porto. È bella, anche quando al posto delle bottegucce e delle boulangeries ci sono Valentino, Chanel, Armani e Cartier che fanno sentire poveri e infimi. È bella soprattutto la mattina presto, quando i bagordi della sera prima trattengono a letto le masse di visitatori, i quali forse non vedranno mai il gioco della luce del sole tra le lapidi del cimitero marittimo a strapiombo sul mare, disteso come una tovaglia bianca ai piedi della cittadella.

Pantheon e Panthéon

Parigi e Roma possiedono due edifici chiamati allo stesso modo: Pantheon.
Che cosa li accomuna oltre alla monumentalità e alle dimensioni gargantuesche?
La morte.
Ma procediamo con calma, senza che vi scandalizziate.

Nel cuore della capitale italiana si erge questa portentosa costruzione le cui vicende si intrecciano agli accadimenti della città, al susseguirsi di imperi, papi e uomini.
L’iscrizione che ancora oggi leggiamo recita:

M AGRIPPA LF COS TERTIUM FECIT

Sarebbe a dire:

Marco Agrippa, figlio di Lucio, lo costruì durante il suo terzo consolato

Anche se poi in realtà il Pantheon che vediamo noi è la versione “moderna”, fatta fare dall’imperatore Adriano, ché di quello agrippiano non resta nulla, visto che andò distrutto in un incendio nell’80.
La storia di questo edificio è alla portata di tutti, su internet, pertanto non mi cimenterò in una lezione di storia dell’arte, né darò luogo ad una complessa spiegazione della sua architettura incredibile (l’oculus). Appassionata come sono di sepolture e cimiteri, vi parlerò delle celebri spoglie che vi sono conservate.

Pantheon, Rome
Pantheon

Nel Pantheon riposano infatti due re d’Italia, Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I con la consorte Margherita. In generale i regnanti di casa Savoia, per volere di Vittorio Amedeo III, erano soliti essere tumulati nella cripta reale della basilica di Superga, in Piemonte. Tuttavia seppellire Vittorio Emanuele II a Roma era un gesto dal grande significato, così potente da spingere Depretis e Crispi (rispettivamente primo ministro e ministro dell’interno alla morte del sovrano) ad “impuntarsi” sulla faccenda. I due statisti ebbero la meglio e i funerali di stato si tennero il 16 febbraio 1878; il Pantheon accolse dunque la salma del re savoiardo divenuto re d’Italia. Roma, la terza capitale del Regno in ordine cronologico dopo Torino e Firenze, veniva in sostanza legittimata come tale grazie a questo atto solenne. L’Italia era fatta, gli italiani ancora no, ma almeno la capitale era stata resa “laicamente sacra” dalla presenza delle spoglie di un re. Una curiosità: l’iscrizione “Vittorio Emanuele – Padre della Patria” è stata fabbricata con il  bronzo dei cannoni austriaci, acquisiti dal nostro esercito dopo aver battuto gli Asburgo nelle guerre del  ’48,’49 e ’59. Wikipedia la conferma qui.

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La tomba del primo re d’Italia

Ancora più importanti, per me, sono le altre sepolture che si trovano al Pantheon romano, prima tra tutti quella di colui la cui stella brilla fulgida nel firmamento dell’arte universale: Raffaello Sanzio, il maestro delle mani e delle Madonne.
A fianco dell’urbinate riposa Annibale Carracci, che chiese espressamente di poter passare il suo eterno riposo vicino a Raffaello. Beato lui che ha potuto.
Anche la musica ha un suo esponente di spicco le cui spoglie giacciono al Pantheon: Arcangelo Corelli, compositore e violinista barocco vissuto tra il ‘600 e il ‘700.

Se siffatti nomi hanno trovato riposo a Roma, sotto l’enorme cupola forata, a Parigi la lista è ancor più lunga ed impressionante.

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Panthéon

Quella che in origine era stata pensata come chiesa di Santa Genoveffa, patrona della città, è divenuta un tempio laico, nella cui cripta sono stati tumulati, nei secoli, le grandi personalità francesi, donne e uomini, rendendo così il Panthéon un mausoleo collettivo a tutti gli effetti.
A ciò si aggiunga anche la vocazione di questo edificio a tempio della scienza, un ruolo ufficializzato nel 1851, quando il fisico Léon Foucault scelse la cupola del Panthéon per farci appendere il suo famoso pendolo, dimostrando così, con un esperimento visibile a tutti i cittadini di Parigi, la rotazione del pianeta intorno al proprio asse. Non ho conoscenze sufficienti per spiegare con parole semplici in che modo l’oscillazione del pendolo dimostri che il nostro pianeta gira su se stesso, ma accludo un link interessante ed utile per chi volesse approfondire l’argomento e rispolverare le nozioni di fisica (nel mio caso non) apprese a scuola.

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Il pendolo di Foucault al Panthéon

Chi riposa, dunque, sotto l’enorme mole del Panthéon della Ville Lumière?
Cominciamo con l’accoppiata più mal assortita di tutta la Francia: Rousseau e Voltaire, intellettualmente ostili, umanamente nemici. Un odio di tutto rispetto li legò durante le loro rispettive parabole in questo mondo, per farli finire, ironia del destino, nello stesso luogo: giacciono infatti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, in due bellissimi sarcofagi istoriati. Ogni volta che vado in visita in questo tempio, la commozione lascia lo spazio all’ilarità: sghignazzo senza sosta al pensiero di quei due addormentati fianco a fianco per l’eternità.
Un altro grande trovò riposo al Panthéon, anche se per poco tempo: quel povero Marat, la cui morte è forse più celebre delle sue imprese politiche grazie al dipinto di David e alle modalità con cui fu compiuto l’assassinio.

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“La morte di Marat” dipinto di Jacques-Louis David, 1793.

La salma di Marat fu custodita al Panthéon per un anno soltanto. Una tesi accettata anche da Victor Hugo afferma che le sue spoglie, poi, considerate quelle di un traditore della patria, vennero traslate prima in una tomba anonima e poi disperse nella cloaca di Parigi.
Hugo stesso si trova tuttora sepolto nella cripta pantheoniana, così come Lazare Carnot, matematico e fisico, lo scienziato italo-francese Lagrange (in origine Lagrangia), Emile Zola, anche lui italo-francese, l’inventore Louis Braille, a cui si deve il sistema di lettura tattile per non vedenti, Alexandre Dumas padre e la coppia d’assi Pierre e Marie Curie.

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Madame Curie e consorte

Denis Diderot è idealmente sepolto al Panthéon: il suo corpo è andato perduto nelle devastazioni ad opera dei Sanculotti avvenute nel 1791 nella chiesa di saint-Roch. Sotto la cupola, tuttavia, si trova un grande cenotafio che lo celebra e lo ricorda.

In entrambi i Pantheon l’atmosfera è densa: nel primo si è sopraffatti dalla rotondità del luogo. dalla circolarità degli spazi e dalle proporzioni gigantesche. Non in ultimo il caos turistico che lo affligge come un male incurabile rende la visita al Pantheon romano un pellegrinaggio affannoso e caciaresco, svuotando la propria presenza sotto l’oculus di ogni significato simbolico e pienezza.
Al contrario, recarsi al Panthéon parigino è un’azione intima e profonda, una transumanza meccana priva dei rischi che si incontrerebbero nel marciare attorno alla Kaaba, ma pur sempre pervasa da una sacralità che perfettamente si sposa con la laicità celebrata in quel tempio.
Le dimensioni del posto, partendo dal colonnato, passando per le proporzioni impressionanti degli affreschi che decorano le pareti, per la lunghezza del pendolo oscillante, per l’ampiezza dei volumi e per le centinaia di metri cubi d’aria contenutivi fanno andare il sangue al cervello, provocando una reazione simile alla sindrome di Stendhal.
Solo che in quel caso il panico, il senso di impotenza e di terribile fragilità e struggimento non son dati da un’opera d’arte di indicibile bellezza, ma dalla consapevolezza che quel luogo è un tempio al sapere, all’arte, alla scienza, a tutto ciò che di meglio l’umanità ha saputo produrre; in breve è un santuario del cervello umano, un luogo dove fermarsi a contemplare le vette a cui si è giunti e riflettere sugli abissi inenarrabili in cui, purtuttavia, noi stirpe umana siamo capaci di precipitare.

Dimmi che cimitero hai e ti dirò che paese sei, ovvero: uomini che ci provano con le donne.

Per comprendere a fondo una civiltà, tre sono le cose che, svelandone il cuore, ci pongono di fronte alla sua essenza. Potremmo utilizzare la tabella kantiana delle categorie e soddisfare ciascuna di esse prendendo ad esempio questi tre soli parametri: arte, cibo e culto dei morti. Non sono la prima a dirlo, ovviamente: Foscolo ci ha basato una poetica, su quest’ultimo punto.
Tali sono i motivi che, quando viaggio, mi spingono ad orbitare attorno ai cimiteri come la luna attorno alla terra.
Ho visitato cimiteri inglesi, tedeschi, portoghesi, israeliti, giordani, egiziani, ma nessuno, nemmeno i tanto famosi camposanti britannici (come ci insegna Thomas Gray), mi hanno mai dato l’emozione che provo quando varco la soglia di un cimitero francese.
Sarà forse che è proprio su questo suolo che per primo ha avuto effetto il napoleonico editto di Saint Cloud (sempre a Foscolo torniamo).
Nel giugno scorso, seguendo il mio istinto di viaggiatrice sui generis, visitai il cimitero di Cogolin, un piccolo paese provenzale nell’entroterra del golfo di Saint Tropez, girovagando tra le tombe nella luce dorata di un pomeriggio inoltrato di mezza estate.
Ero la sola visitatrice della necropoli. Ovviamente, dopo aver aver avuto il piacere di contemplare diverse volte i celebri cimiteri parigini, questo piccolo camposanto provenzale non mi colpì di certo per le sue peculiarità architettoniche. Ma il caso volle che una serie di fatti avvenissero nel mentre della mia visita.
Camminai assorta tra le tombe, annotando mentalmente i cognomi più salienti, le date (nessuna antecedente al 1830), le dediche riservate ai cari estinti. Nessuna piccionaia come quelle che troviamo in Italia, ma la classica sepoltura a terra, con lastre di marmo a custodirne l’apertura era il tipo di sepolcro più comune. Trovai la tomba di una certa famiglia Rimbaud. Allora fantasticai lungamente: potevano essere lontani parenti del celebre poeta, il quale, d’altra parte, si spense a Marsiglia. Tempo dopo l’arcano mi fu svelato: in realtà si trattava di una famiglia che aveva molto poco di poetico nel proprio repertorio genetico.
Tornando al camposanto di Cogolin, rammento che un cippo commemorativo posto al centro esatto del cimitero ricordava i cittadini caduti in tre guerre: l’enorme sacrificio umano consumato nella prima guerra mondiale era onorato catalogando per anno il nome di ogni singolo cogolinese perito in trincea. Constatai poi che, sorprendentemente, la seconda guerra mondiale causò la morte di meno di una decina di cittadini. Uno solo, infine, spirò in Algeria.
Non c’erano sepolture ebraiche, né di altra confessione a me nota.
Mentre marciavo sulla ghiaia, alla volta del gruppo monumentale apparentemente più antico e malmesso, in mezzo a quella desolazione di morte, dalle case sottostanti risuonò forte e prepotente nell’aria un vagito di neonato, che mi colpì come un pugno allo stomaco. L’accostamento della morte alla vita nella sua espressione più potente e gioiosa fu in grado di provocare in me una sensazione di panico che raramente ho avuto modo di provare. Ero al culmine della mia felicità, credo, stordita, come drogata, come ubriaca. Era caldo, era tutto ovattato, solo il pianto del bambino era definito nella mia mente. Mi fermai e mi sedetti su una tomba. Per un attimo mi balenò in mente il Newton di William Blake… e poi tornai in me, per riprendere la caccia di dati e sensazioni di cui sempre sono affamata.
Uscii dal camposanto col petto ricolmo di consapevolezza del mio essere così incredibilmente umana: sangue, cervello, occhi, muscoli, viscere e merda che si muovono animati da chissà che cosa, una cosa di cui quel cimitero era pieno da scoppiare.
Feci il giro largo, per tornare a casa, passando davanti alla torre dell’orologio di Cogolin, l’ultimo bastione della cinta fortificata che fu distrutta nel XVI secolo durante le guerre di religione.
Ridiscesa nel centro del paese, ancora concentrata su ciò che avevo provato, fui riscossa bruscamente dai miei pensieri. Quasi mi feci investire da uno scooter lungo la via accanto al cinema. Il mio temperamento abbastanza irascibile mi condusse a lanciare un’occhiata carica di disgusto e rabbia al guidatore, il quale si rivelò essere, più che un idiota totale, un dongiovanni dei miei stivali: infatti non aveva trovato altro modo per avvicinarmi, farmi dei complimenti e chiedermi di uscire a bere qualcosa con lui se non provando ad investirmi.

Ai tre parametri sull’analisi della civiltà di cui sopra, io ora ne aggiungerei un quarto: il modo in cui gli uomini ci provano con le ragazze. Questo la dice molto lunga sulla cultura di una nazione!