Pillola: Renault 5 tra i vitigni

Ho una Renault 5 del 1988, è perfino più vecchia di me.
Ha solo quattro marce e tre porte, la carrozzeria è blu scurissimo, il tettuccio tutto bianco.
I finestrini si aprono e chiudono con la manovella, le portiere si aprono a mano e per farla partire serve dare molto gas.
I sedili sono ruvidi, graffiano le gambe.

Non so per quante mani sia già passata, ma mi piace pensare che qualcuno ci abbia perso la verginità, al suo interno, o che ci abbia fumato qualche spinello, o che ci abbia preso una sbornia o che una donna che stava per partorire ci abbia fatto il tragitto in ospedale.

Arranca sulle colline del Var, mi porta piano piano dove devo andare.

Personale riflessione sul mai.

Mesi fa scrissi un breve post sul mio trasloco in Francia. Ora che ho spostato baracca e burattini un’altra volta, l’ennesima migrazione della mia vita (sono all’incirca al tredicesimo trasloco, ma non sono molto sicura perché di mezzo ci sono vagabondaggi più o meno temporanei), posso dire con cognizione di causa soltanto una cosa: mai dire mai.

Quando arrivai per caso a Cavalaire, l’estate scorsa, più per fuggire da un compito ingrato assegnatomi nel giorno libero che per visitarla veramente, mi dissi che mai avrei voluto vivere in una cittadina come quella, che pensai essere una “Senigallia senza centro storico”, quindi abbastanza banale, priva di stimoli e tutto sommato parecchio triste.
Ripenso a tutte le volte che ho detto “mai” in vita mia: me lo sono dovuto rimangiare ben pepato e piccante dopo ogni scherzo del destino che, spiritello beffardo, mi ha portata puntualmente verso luoghi e persone che MAI, appunto, avrei pensato sarebbero diventati parte della mia vita.

Cavalaire è solo un nome tra tantissimi. Ora mi trovo qui e ho la ferma intenzione di cogliere tutto il bene che potrà offrirmi. So per certo che le mie peregrinazioni non sono finite, e d’altra parte chi si ferma è perduto, ma per il momento questa è casa mia.

“L’erba del vicino è sempre più verde”, si dice. Spesso però del prato accanto non ce ne frega proprio niente e l’urgenza che preme davvero sul cuore è invece di vedere parchi, praterie, pascoli, foreste e paesaggi più o meno verdi, più o meno lontani. L’importante, comunque, è andare e compiere il viaggio con chi vale la pena essere. La meta non ha senso perché non esiste, c’è solo quello che accade nell’andare, c’è solo quello che c’è mentre lo si vive.

Machado ce lo dice nel suo poema Cantares.

Todo pasa y todo queda,
pero lo nuestro es pasar,
pasar haciendo caminos,
caminos sobre la mar.

Nunca persegui la gloria,
ni dejar en la memoria
de los hombres mi cancion;
yo amo los mundos sutiles,
ingravidos y gentiles,
como pompas de jabon.

Me gusta verlos pintarse
de sol y grana, volar
bajo el cielo azul, temblar
subitamente y quebrarse…
Nunca persegui la gloria.

Caminante, son tus huellas
el camino y nada mas;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.

Al andar se hace camino
y al volver la vista atras
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.

Caminante no hay camino
sino estelas en la mar…

Hace algun tiempo en ese lugar
donde hoy los bosques se visten de espinos
se oyo la voz de un poeta gritar:
Caminante no hay camino,
se hace camino al andar
…”

golpe a golpe, verso a verso…

Murio el poeta lejos del hogar.
Le cubre el polvo de un pais vecino.
Al alejarse le vieron llorar.
Caminante no hay camino,
se hace camino al andar
…”

golpe a golpe, verso a verso…

Cuando el jilguero no puede cantar,
cuando el poeta es un peregrino,
cuando de nada nos sirve rezar.
Caminante no hay camino,
se hace camino al anda
r…”

golpe a golpe, verso a verso.

Caminante, no hay camino, se hace camino al andar.

Viandante, non c’è meta, la meta si fa con l’andare.

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Antonio Machado

Pillola: ratti e David Bowie

Dodici ore di viaggio in macchina, attraverso la Tuscia, il Valdarno, la Liguria.
Si arriva in Francia frastornati e impolverati; si va a dormire un sonno denso e attonito.
Ci si sveglia: è morto David Bowie.

La sera si passeggia per il porto, ancora illuminato dalle decorazioni natalizie. Un ratto taglia la strada, un brivido di disgusto percorre la schiena.
Il mare è calmo. Si alzano gli occhi al cielo:

There’s a starman waiting in the sky.
He’d like to come and meet us
but he thinks he’d blow our minds.

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D.B.

La Croix-Valmer: storia e birra

Nell’articolo precedente ho spiegato come la storia di Roma e del cristianesimo siano passate da queste parti lasciando la loro scia indelebile sul territorio. La Croix-Valmer ne è l’esempio più eclatante. Ma non è stata toccata solo dalle gesta degli antichi romani, come ci ricordano i fumetti di Asterix e Obelix e gli affreschi di Raffaello. Questo piccolo villaggio provenzale ha vissuto anche lo sbarco in Provenza delle truppe alleate nell’agosto del 1944: a poca distanza dal centro abitato, infatti, vi è una spiaggia chiamata proprio Plage du debarquement, teatro dell’operazione Anvil Dragoon.
Che cosa accadde? In soldoni, nella notte tra il 14 e 15 agosto 1944, lo squadrone Alpha giunse sul tratto di costa che va dalla celebre Pampelonne fino a Cavalaire-sur-mer. In un precedente articolo ho già trattato le vicende legate alla liberazione di Marsiglia, quindi l’argomento non è nuovo ai lettori del blog. Nella memoria di molti anziani del paese, che al tempo erano poco più che bambini, il giorno dello sbarco è rimasto scolpito, inciso a fuoco, come se fosse successo ieri. Prossimamente avrò occasione di riportare un’intervista ad un’anziana vedova che conserva memoria vivida di quanto avvenne. Per chiunque volesse approfondire la storia dello sbarco in Provenza, qui troverà il link alla pagina Wikipedia, come sempre fonte di ogni conoscenza.
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Lasciando da parte la storia bellica del secolo scorso e volgendo il pensiero alle meraviglie naturali di questi posti magnifici, mi preme parlare di una piccola spiaggia, selvaggia e nascosta alla maggior parte dei turisti che affollano la zona di Saint Tropez ogni estate. Si tratta di Gigaro, che il sito letourdesplages.fr pone tra le più belle spiagge della regione intera.
Chiunque avesse voglia di goderne appieno la beltà, può concedersi una passeggiata lungo il sentiero del Litorale, che da Gigaro arriva fino a Cap Lardier. La macchia mediterranea, con i suoi acri profumi, e la vista sulla distesa d’acqua che si staglia ai piedi del viaggiatore agiscono come un balsamo per l’anima, mentre si percorre il cammino tortuoso lungo la costa frastagliata e rustica.
Una volta tornati a Gigaro, accaldati dalla passeggiata, è piacevole sedersi sulla sabbia granulosa, riposare, e magari rinfrescarsi con un prodotto locale, La Croisienne. L’idea di produrre una birra artigianale che rispecchiasse lo spirito di Gigaro è stata partorita da tre cugini nati e cresciuti in questa contrada. Ecco perché La Croisienne, di cui sono disponibili sia la bionda che la blanche, è soprannominata “il segreto di Gigaro”. La si può trovare al link lesecretdegigaro.fr.

Non mi resta che dire: “Alla salute!”

De amore gallico vi augura buon Natale e che l’inizio del 2016 sia foriero di gioia e prosperità per tutti. A prestissimo con nuovi articoli e nuove curiosità.

Par ce signe tu vaincras / In hoc signo vinces

Il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, a Roma, è vexata quaestio per gli storici. Sebbene si possa affermare che esso avvenne gradualmente, è possibile però, dall’altra parte, annotare due date chiave: la prima è il 313 d.C., quando viene emesso l’Editto di Costantino, col quale si sancisce la libertà di fede. La seconda è il 380 d.C., anno in cui l’imperatore Teodosio rende il cristianesimo religione dell’impero.

Tra le due figure storiche, quella di cui voglio parlare è Costantino, la cui vicenda è entrata a pieno titolo nella mitologia cristiana: è sufficiente pensare all’aneddoto del sogno. Esso è stato immortalato da innumerevoli artisti, nel corso dei secoli, Raffaello compreso, che affrescò l’ultima delle sue celebri Stanze in Vaticano con le storie dell’imperatore. A mio giudizio, tuttavia, la raffigurazione del sogno più significativa è quella di Piero Della Francesca, per il quale mio padre m’ha fatto sviluppare un’autentica venerazione. L’affresco è rivoluzionario e costituisce un esempio superbo dell’innovazione prospettica introdotta dal Della Francesca nella pittura: notare come la conicità della tenda sia così ben definita.

Dov’è il legame con la Gallia, direte voi? Beh, si dà il caso che Costantino s’addormentò e sognò l’angelo proprio da queste parti, in Costa Azzurra, più precisamente in un paesino a pochi km da Saint Tropez chiamato La Croix Valmer. Non serve spiegare che esso deve il nome proprio all’imperatore e alla sua mistica attività onirica. Qui, leggenda vuole, egli s’accampò e preparò i suoi uomini per la storica battaglia di Ponte Milvio, che pose fine a lotte intestine per il controllo dell’impero, concludendosi in favore di Costantino.

Il resto è storia.

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“Il sogno di Costantino” affresco di Piero della Francesca,  dipinto tra il 1458 e il 1466, Arezzo.

Ugro-francese

Riprendo dal mio diario dell’estate appena trascorsa (data 16 giugno):

Il pomeriggio mi ha vista invece optare per un fuori programma in solitaria, i retroscena del quale preferisco tacere, e che mi ha portata a Cavalair sur Mer, una Senigallia francese senza la parte storica del centro (quindi è una roba commerciale da lungomare senza particolare spessore culturale).
E’ qui che ho fatto un incontro davvero bizzarro e meraviglioso.
Mentre aspettavo l’autobus per ritornare a Cogolin alla fermata, dalla corriera proveniente da Tolone è sceso un distintissimo signore in completo di lino color crema, che con gran disinvoltura camminava portandosi appresso una valigia voluminosa. Aveva uno smartphone in mano e, con classe e nonchalance, ha telefonato al figlio non appena sedutosi sotto la pensilina.
Poi ha tirato fuori dal taschino un pacchetto di sigarette e, gentilmente, mi ha chiesto se avessi da accendere.
Per puro caso avevo in borsa i fiammiferi che utilizzo per accendere l’incenso in camera mia, quindi gli ho offerto il fuoco tutta soddisfatta, manco fossi Prometeo. Lui, con garbo e galanteria, mi ha voluto donare una sigaretta, parlandomi in uno spagnolo dal chiaro accento gallico. Allora, ridendo, gli ho detto che non sono spagnola ma italiana.
“Italiana? – ha risposto passando al francese – Anche meglio! Adoro le donne italiane!”

Da qui parte una conversazione fenomenale in cui ci diciamo tutto tranne i nostri nomi.
Scopro che ha 86 anni (e chi lo avrebbe mai detto!?), che è un parigino che sta andando in villeggiatura a Saint Tropez e che è appena arrivato in aereo a Tolone. La moglie lo ha anticipato di qualche giorno venendo però in macchina (hai capito la signora), perché aveva un bagaglio troppo pesante a cui non voleva rinunciare (e certo, la vacanza a Saint Tropez va fatta con tutti i crismi e carismi).
Lui mi dice che ha visitato tutta l’Italia e che ha lasciato il cuore in un ristorantino dell’entroterra siculo, tanti anni or sono.
Ama Milano, Venezia, Napoli e la malinconica Trieste e dodici anni fa, quando è stato operato (ben diciannove volte!), nel suo letto d’ospedale, invece di sognare la moglie, sognava l’Italia.
Ama la lingua italiana, perché è dolcissima, mentre il francese è l’idioma della diplomazia: infido e truffaldino.
Di qui si passa a parlare di quando il francese sia dunque diventato lingua diplomatica, a partire dal congresso di Vienna, grazie a Talleyrand, che cercava i rattoppare le cappelle fatte da Napoleone, per evitare che la Francia patisse troppo. E giù a discutere di storia: la campagna d’Egitto napoleonica, i furti d’arte compiuti in Italia…
Vengo a sapere che lui è figlio di padre francese e madre ungherese, nato a Budapest nel 1929: ha perso i genitori durante la guerra e, nel 1946, a 17 anni, è venuto in Francia dall’Ungheria tutto da solo, e si è costruito una vita.
E’ tornato a Budapest, nel tempo, anche se “hanno avuto quel maledetto comunismo, che ha rovinato tutto.”
Ora si duole che l’Ungheria sia in mano all’estrema destra, ma d’altronde in tanti paesi europei di questi tempi…

L’autobus su cui doveva salire è arrivato con troppo anticipo per i miei gusti. Non ha voluto che lo aiutassi con la valigia, e mi ha salutata con calore, lasciandomi nel petto quella fiammella ballerina che, all’inizio del nostro incontro, io gli avevo offerto per le sigarette: lui me l’ha restituita sotto forma di buonumore e qualcosa d’altro che non so ben definire: speranza?

Coast to coast

Raggiungere la Costa Azzurra partendo da quella Adriatica non è un viaggio lineare, specialmente se lo si affronta utilizzando il treno. Va ammesso che, effettivamente, è un mezzo romantico: concilia la riflessione, la lettura e l’osservazione, snerva, stanca, frustra e puzza. Il paesaggio fuori dal finestrino cambia insieme allo stato d’animo, andando dal gioioso pragmatismo delle colline marchigiane verso l’indolente piattume padano. Dall’ossessivo cemento milanese si arriva ad un’aspra e laconica strettezza genovese. Si va lenti lungo un pigro e scomodo litorale fino alla flemmatica e rilassata costa francese. Sembra quasi un avvicendarsi di scenografie teatrali di un dramma il cui attore principale è l’umore del viaggiatore.

Viceversa, il tragitto nel senso opposto è drammatico, lento, tentennante, illogico, impaziente. Alienante. Specie se non tutte le coincidenze e gli orari vengono rispettati, se ci si perde in stazioni dimenticate da Dio alle dieci di sera, aspettando Intercity che sembrano non arrivare mai.

Che si vada in un senso o nell’altro, si deve comunque passare per Ventimiglia. Questa cittadina ha un je ne sais quoi di tetro. Forse è così in tutte le città di frontiera del mondo, ma a Ventimiglia in particolare si soffre, si percepisce nell’aria un’atmosfera di passaggio, un’inquietudine kafkiana che si aggrappa alle viscere con le zanne di una tenia, investendo il viaggiatore di una malinconia foscoliana. Ci si sente profughi, apolidi, rifugiati, in quella città, proprio come quei poveretti che hanno subito il respingimento di frontiera e sono stati costretti ad accamparsi sugli scogli.

Che si sia pendolare veterano o novellino di primo pelo, si è sempre un po’ stupiti e contrariati dalla lunghezza del litorale ligure e provenzale. La loro estensione è esasperata dalla conformazione frastagliata della costa, piena di rientranze e sporgenze, che allungano in modo estenuante il tragitto da percorrere. Ciò colpisce ancor di più il nativo della costa Adriatica, tutta dritta e lineare.

Forse questa differenza di conformazione costiera è una metafora efficace per definire il cambiamento che avviene nel cuore di chi lascia la morbida dolcezza dei profili marchigiani per l’aspra ricchezza del sud francese: una vibrazione nuova muove le corde del cuore, il petto risuona di nuovi accordi e tutto si tinge di una sfumatura verde, come i vigneti provenzali, come il mare in autunno, come una speranza appena nata.

Dimmi che cimitero hai e ti dirò che paese sei, ovvero: uomini che ci provano con le donne.

Per comprendere a fondo una civiltà, tre sono le cose che, svelandone il cuore, ci pongono di fronte alla sua essenza. Potremmo utilizzare la tabella kantiana delle categorie e soddisfare ciascuna di esse prendendo ad esempio questi tre soli parametri: arte, cibo e culto dei morti. Non sono la prima a dirlo, ovviamente: Foscolo ci ha basato una poetica, su quest’ultimo punto.
Tali sono i motivi che, quando viaggio, mi spingono ad orbitare attorno ai cimiteri come la luna attorno alla terra.
Ho visitato cimiteri inglesi, tedeschi, portoghesi, israeliti, giordani, egiziani, ma nessuno, nemmeno i tanto famosi camposanti britannici (come ci insegna Thomas Gray), mi hanno mai dato l’emozione che provo quando varco la soglia di un cimitero francese.
Sarà forse che è proprio su questo suolo che per primo ha avuto effetto il napoleonico editto di Saint Cloud (sempre a Foscolo torniamo).
Nel giugno scorso, seguendo il mio istinto di viaggiatrice sui generis, visitai il cimitero di Cogolin, un piccolo paese provenzale nell’entroterra del golfo di Saint Tropez, girovagando tra le tombe nella luce dorata di un pomeriggio inoltrato di mezza estate.
Ero la sola visitatrice della necropoli. Ovviamente, dopo aver aver avuto il piacere di contemplare diverse volte i celebri cimiteri parigini, questo piccolo camposanto provenzale non mi colpì di certo per le sue peculiarità architettoniche. Ma il caso volle che una serie di fatti avvenissero nel mentre della mia visita.
Camminai assorta tra le tombe, annotando mentalmente i cognomi più salienti, le date (nessuna antecedente al 1830), le dediche riservate ai cari estinti. Nessuna piccionaia come quelle che troviamo in Italia, ma la classica sepoltura a terra, con lastre di marmo a custodirne l’apertura era il tipo di sepolcro più comune. Trovai la tomba di una certa famiglia Rimbaud. Allora fantasticai lungamente: potevano essere lontani parenti del celebre poeta, il quale, d’altra parte, si spense a Marsiglia. Tempo dopo l’arcano mi fu svelato: in realtà si trattava di una famiglia che aveva molto poco di poetico nel proprio repertorio genetico.
Tornando al camposanto di Cogolin, rammento che un cippo commemorativo posto al centro esatto del cimitero ricordava i cittadini caduti in tre guerre: l’enorme sacrificio umano consumato nella prima guerra mondiale era onorato catalogando per anno il nome di ogni singolo cogolinese perito in trincea. Constatai poi che, sorprendentemente, la seconda guerra mondiale causò la morte di meno di una decina di cittadini. Uno solo, infine, spirò in Algeria.
Non c’erano sepolture ebraiche, né di altra confessione a me nota.
Mentre marciavo sulla ghiaia, alla volta del gruppo monumentale apparentemente più antico e malmesso, in mezzo a quella desolazione di morte, dalle case sottostanti risuonò forte e prepotente nell’aria un vagito di neonato, che mi colpì come un pugno allo stomaco. L’accostamento della morte alla vita nella sua espressione più potente e gioiosa fu in grado di provocare in me una sensazione di panico che raramente ho avuto modo di provare. Ero al culmine della mia felicità, credo, stordita, come drogata, come ubriaca. Era caldo, era tutto ovattato, solo il pianto del bambino era definito nella mia mente. Mi fermai e mi sedetti su una tomba. Per un attimo mi balenò in mente il Newton di William Blake… e poi tornai in me, per riprendere la caccia di dati e sensazioni di cui sempre sono affamata.
Uscii dal camposanto col petto ricolmo di consapevolezza del mio essere così incredibilmente umana: sangue, cervello, occhi, muscoli, viscere e merda che si muovono animati da chissà che cosa, una cosa di cui quel cimitero era pieno da scoppiare.
Feci il giro largo, per tornare a casa, passando davanti alla torre dell’orologio di Cogolin, l’ultimo bastione della cinta fortificata che fu distrutta nel XVI secolo durante le guerre di religione.
Ridiscesa nel centro del paese, ancora concentrata su ciò che avevo provato, fui riscossa bruscamente dai miei pensieri. Quasi mi feci investire da uno scooter lungo la via accanto al cinema. Il mio temperamento abbastanza irascibile mi condusse a lanciare un’occhiata carica di disgusto e rabbia al guidatore, il quale si rivelò essere, più che un idiota totale, un dongiovanni dei miei stivali: infatti non aveva trovato altro modo per avvicinarmi, farmi dei complimenti e chiedermi di uscire a bere qualcosa con lui se non provando ad investirmi.

Ai tre parametri sull’analisi della civiltà di cui sopra, io ora ne aggiungerei un quarto: il modo in cui gli uomini ci provano con le ragazze. Questo la dice molto lunga sulla cultura di una nazione!

Amoureux sur la terrasse de la Bouillabaisse

Terrazzina della Bouillabaisse
Terrazzina della Bouillabaisse

Tornata a casa, di notte, mi sembrava di soffrire di quel raro disturbo, che ha il nome di una figura retorica, chiamato “sinestesia”.

Ero come ricolma di suoni colorati, odori sgargianti, sapori melodiosi, immagini morbide. Ho preso una penna e il quaderno, per registrare ciò che era successo, per cristallizzare il momento in cui era accaduto:

Arrampicatami sugli scogli, mi guardai intorno: la via lattea era sopra di me, nella sua opacità miracolosa, non disturbata dalle luci provenienti dall’altro lato del promontorio. Un faro lontano, su un’isola prospiciente la costa, ammiccava regolarmente nel buio.
I miei piedi, messi a dura prova dalle rocce, ora posavano su una piattaforma stabile, su cui il mare, nel tempo, aveva depositato strati di alghe, come a farne un umile omaggio alla terraferma.
Dentro, tutto deflagrava silenziosamente.

Approdo e scoperta

Approdo e scoperta

Case inerpicate su colli verdi e fioriti, fontane gorgoglianti poste nel mezzo della piazza antistante la chiesa, mercatini del sabato con bancarelle stracolme di lavanda, saponi, olive e spezie… tutto sembra appena uscito da una cartolina, qui, in Provenza – Costa Azzurra. Se ci si riesce a fermare per un po’ in questi villaggi della costa meridionale francese, tuttavia, si scopre che la vita qui scorre esattamente in questo modo: intrecciando tradizione e contemporaneità in modo sapiente ed aggraziato, come trama e ordito vengono annodati tra loro nella famosa fabbrica di tappeti di Cogolin, borgo provenzale noto anche per le sue pipe fatte a mano dagli artigiani del luogo.

La Provenza – Costa Azzurra è un luogo che richiama alla mente immagini di natura molto diversa: l’eleganza di località come Cannes o Saint Tropez, la ruvidezza dei porti di Tolone e Marsiglia, la pittoresca tipicità dei borghi dell’entroterra come Grimaud e Gassin, il sacro che si percepisce nei posti dove grandi penne e grandi pennelli hanno vissuto e lavorato, sono solo alcuni dei vari sapori che il palato di un viaggiatore può gustare, attraversando la regione alla scoperta di ciò che essa sa offrire a chi è pronto per ricevere.

In qualità di ultimo avamposto mediterraneo prima di procedere verso nord, essa è stata nei secoli meta di colonizzazioni e migrazioni. Innumerevoli sono le culture e i popoli che si sono avvicendati sulle sue rive blu: dai focesi, che fondarono il primo nucleo di Marsiglia, ai romani, che impressero un marchio indelebile sul territorio, tanto da lasciare un’eredità culturale  da rendere la corte di Provenza una delle più raffinate e colte di tutto il medioevo. Costanza d’Aragona, prima moglie dello Stupor Mundi Federico II, aveva ricevuto la sua educazione proprio in questo luogo di grande tradizione, e lo stesso Dante menziona la provincia in diversi punti della Commedia. Mentre si va a spasso per i borghi occitani, non è raro trovare cognomi di chiara origina italiana sui campanelli dei portoni, e, più che in altre parti della Francia, ad eccezione forse di Parigi, la presenza di migranti magrebini è assai forte. Non va inoltre dimenticata la presenza della cultura gitana, in questa terra crocevia di migrazioni: documenti rinvenuti nella città di Arles attestano infatti che sin dal 1400 questa affascinante terra era percorsa dalle genti gitane, anche se, da altre fonti, si può desumere che gli zingari siano entrati in Francia sin dal IX secolo. In questo contesto si inserisce il culto gitano della Madonna Nera, la protettrice dei nomadi. In lingua romanì essa si chiama Sara-Kâli, e la tradizione prevede una grandiosa processione a cui i gitani, ferventi fedeli, prendono parte ancora oggi ogni 24 e 25 maggio, quando la statua della Sara Nera viene trasportata dalla cripta fino al mare di Saint Marie de la  Mer. Questo rituale ha radici antiche, sin dai tempi in cui gli zingari arrivavano i Provenza con le loro carovane trainate da cavalli, radunandosi nei pressi della costa della Camargue, dando luogo a celebrazioni, libagioni e canti al chiarore di tante candele e falò.

La Provenza – Costa Azzurra è tutto questo e molto di più. Il cuore della vita mondana, Saint Tropez, accoglie il viaggiatore con la sua patina iridescente di eleganza ed esclusività. Chi volesse cogliere appieno la sua essenza, però, dovrebbe perforare questa pellicola luccicante ed addentrarsi per le vie meno gremite e meno conosciute, che, serpeggiando in salita, menano alla sommità del promontorio, dove si trova la vera perla di questa città: il fortino. Una visita a questo luogo permette al viaggiatore di immergersi nelle nebbie della storia e, forse, se vi si accosta con animo sgombro e giocosamente infantile, lo trasporta tra le pagine di romanzi come “Il conte di Montecristo” o “I tre moschettieri”, in un vortice immaginifico di storia e di storie.

Il profumo dei gelsomini in fiore si spande nell’aria calda e ventosa di giugno, distendendosi lungo tutto il litorale. Ci sono posti come Cavalair – sur – mer, una località che ricorda la banalità delle spiagge romagnole perché priva dell’afflato snob che si può trovare a Saint Tropez. O paesini come Grimaud, la cui anima così esasperatamente provenzale fa quasi sospettare che sia stato tutto architettato ed orchestrato abilmente per soddisfare le aspettative dei turisti.

Se ci si spinge ad ovest, fino alla città portuale di Tolone, si scopre ancora un altro volto di questa terra, quello più screpolato dalla salsedine e più cotto dal sole. Tolone accoglie il visitatore con un aspro e diffidente saluto: è una città che va scoperta in discesa, andando dalla stazione fino al porto, luogo magico, ove essa si schiude del tutto, conducendo il viaggiatore nel suo budello più intimo: il mercato tradizionale che si apre ogni mattina (eccetto il lunedì) nel quartiere medievale. Voci, colori, odori e sapori si mescolano saturando i sensi, il tutto inasprito dal sale che proviene dalle banchine, a pochi metri da lì.

Il viaggio in questa terra del sud francese non può dirsi ancora concluso: vi sono altri suoi volti da guardare, ed il viandante non può esimersi dal continuare il suo percorso verso ovest, là, dove Marsiglia, Aix – en – Provence e Arles lo attendono con i loro tesori.