Le Télémaque: il mistero del tesoro di Luigi XVI

Che cosa trasportava il brigantino Télémaque il 3 gennaio del 1790? Quali segreti erano custoditi nella sua stiva? Un mistero che ha intrigato storici, scrittori e cercatori d’oro degli ultimi duecento anni…

Struttura di un brigantino, un’imbarcazione a due alberi molto veloce

Il Télémaque, al momento del naufragio, non si chiamava più così. Il brigantino era infatti stato acquistato al rouennese Louis Durand da Jean-Vincent Le Canu, commerciante di rue des Charrettes, e dai suoi soci, il Capitano Quemin e altri. Le Canu aveva ribattezzato il Télémaque: la scelta del nuovo nome era caduta su Le Quintanadoine, in onore di una ‘famosa famiglia di armatori di Rouen’. Si sa, cambiare il nome ad una barca porta molta sfortuna! Poco importa come sia stato rinominato, questo bateau è comunque passato alla storia come Télémaque.

Il ruolo di bordo del Télémaque

Era stato anche riparato e ingrandito: dopo i lavori di ristrutturazione il brigantino misurava 26 metri di lunghezza per 7,33 di larghezza e 4,33 di altezza. Va sottolineato che il Capitano Quemin e tutto l’equipaggio che salì a bordo del Quintanadoine per la missione che finì in naufragio erano gli stessi che aveva lavorato su quelbrigantino quando si chiamava Télémaque. Squadra che vince non si cambia!

Il 24 Dicembre 1789 il Quintanadoine ricevette il lasciapassare dall’ammiragliato di Rouen e salpò alla volta di Brest per trasportare legname e carbone, ufficialmente…
Il brigantino solcava le placide acque della Senna, destreggiandosi tra le anse del fiume, arrivando il 2 gennaio 1790 a Quillebeuf-sur-Seine. L’equipaggio mise l’ex Télémaque au mouillage a circa 100 metri di distanza dalla riva della città. Ed ecco che accadde il fatto che diede vita al mistero.

Le cronache narrano che un frangente, cioè un’onda particolarmente violenta e anomala, si sia riversata sul brigantino, lo abbia schiantato da babordo verso tribordo, gli abbia fatto perdere gran parte del carico e abbia rotto tutte le cime e tutte le gomene che assicuravano l’imbarcazione.

Quemin fece immediatamente mettere in acqua le scialuppe di salvataggio e tutta la ciurma fortunatamente si salvò, fatta eccezione per il mozzo, poveretto. Infatti il Télémaque colò a picco, portando con sé il giovane apprendista marinaio di cui non è più stato trovato il corpo e, pare, tutto il carico che trasportava in quella missione. Il Capitano avrebbe dovuto immediatamente riportare l’incidente alle autorità competenti, ma sembra che l’ammiragliato di Quillebeuf non abbia ricevuto notifica del naufragio che tre giorni dopo, il 5 gennaio 1790. La cosa strana è che negli archivi non risulta nulla e che l’impiegato addetto alla registrazione dei documenti, intervistato in seguito, disse di non aver alcun ricordo riguardante il dossier del naufragio del Télémaque.

Il tragitto dell’ultimo viaggio del Télémaque

La leggenda – perché forse di leggenda si tratta, o magari di storia, noi non lo sappiamo – vuole che, invece di legname e carbone, il Télémaque trasportasse un tesoro incalcolabile: l’oro di Luigi XVI, del clero, delle abbazie di Jumièges, di Saint-Martin-de-Boscherville, di aristocratici e nobili che avevano pianificato la grande fuga all’estero, per mettersi al sicuro ed evitare che la Rivoluzione li espropriasse di tutto. Il problema è che, se anche si può reputare credibile che clericali e aristocratici, a cavallo tra il 1789 e il 1790, volessero prendere armi e bagagli e andarsene dalla Francia messa a ferro e fuoco dai giacobini, il re e la famiglia reale non tentarono la fuga che un anno dopo, nel 1791, quando furono scoperti nottetempo a Varennes (firmando così, in un certo senso, la loro condanna).

Negli anni successivi diversi personaggi, specialmente dei privati, fecero di tutto per spostare il relitto dal fondo della Senna di fronte a Quillebeuf, ufficialmente per ‘intralcio alla navigazione’, affermando che l’épave adagiata sul fondo del letto del fiume ostacolava il viavai fluviale, ma in realtà per cercare di recuperare il fantomatico tesoro. Primo tra essi fu un certo armatore del porto di Le Havre di nome Le Canut (strano e sospetto come il cognome ricordi quello del proprietario del Quintanadoine).

Va detto che ad alimentare la leggenda del Télémaque contribuì anche un pamphlet pubblicato nel 1842 da un inglese, un certo Taylor, uno dei tanti privati che negli anni aveva cercato di riportare in superficie il relitto. In questo pamphlet intitolato “Sauvetage du navire le Télémaque, naufragé en Seine devant Quillebeuf, le 3 janvier 1790, supposé contenir de 30 000 000 à 80 millions de francs” si leggeva che diversi testimoni illustri, nessuno dei quali desiderava essere nominato, affermavano che:

Una quantità considerevole di gioielli e tesori proveniente da alcune chiese sarebbe stata segretamente condotta dentro un magazzino di Rouen affittato di nascosto. In quel luogo, nottetempo, tutti quei tesori furono fusi in lingotti d’oro, poi messi in barili cerchiati di ferro e fatti rotolare fino nelle stive di DUE imbarcazioni: il Télémaque ribattezzato Quintanadoine e una misteriosa goletta.

Sempre in questo pamphlet si leggeva che la destinazione ufficiale era Brest, ma il Capitano Quemin aveva in realtà ricevuto una busta da aprire solo e soltanto una volta superato il Capo de la Hève. Regola della massima importanza: evitare ad ogni costo i doganieri. Questi, però, riuscirono a rintracciare le due barche. La goletta fu arrestata e fatta rientrare in un porticciolo fluviale non lontano da Quillebeuf; il suo carico prezioso fu ispezionato e requisito: vi fu trovata tutta l’argenteria della famiglia reale, pare.

Crestois in azione

Il Télémaque invece arrivò fino a Quillebeuf e… colò a picco. Secondo il pamphlet ciò accadde perché il capitano Quemin, di fretta com’era, manovrò maldestramente la barca. Insomma, una bellissima storia, un’interessantissima storia che portò come risultato altri tentativi di recuperare il relitto che si susseguirono nel tempo, con minore e maggiore frequenza, per i successivi centrotrentotto anni.

Recupero di una parte del relitto

Infatti nel 1939, proprio quando venti di guerra soffiavano sull’Europa, finalmente, André Crestois, un industriale di Parigi, ottiene l’autorizzazione amministrativa ad effettuare dei lavori di recupero. Lo Stato francese era incoraggiato dai successi di missioni analoghe avvenute in quegli anni in giro per il mondo. Un sommozzatore in scafandro, René Cabioche, di Roscof, fu l’uomo che rese possibile il recupero di alcuni materiali dal relitto: candelabri, serrature, chiavi, chiodi, catene, ma anche dei crocifissi, dei sigilli con lo stemma fleur de lis, una catena enorme in oro massiccio usata come pettorale dai vescovi, monete d’oro… i lavori continuarono fino a che, nella primavera del 1940, una parte del relitto fu riportata in superficie. Peccato che su questa parte di relitto non si sia trovato nulla e che la stiva e la camera del Capitano siano sempre in fondo al fiume. Magari il tesoro vero e proprio sta ancora là sotto!

Oggi, purtroppo, dopo che molti lavori di sistemazione del letto fluviale della Senna sono stati fatti durante gli anni, sembra che il punto in cui il relitto affondò e fu successivamente ispezionato e in parte recuperato sia finito sotto un campo di calcio.

Va anche detto che all’epoca dei fatti gli abitanti di Quillebeuf erano conosciuti per essere degli sciacalli di relitti fluviali molto rapidi ed efficaci… chi lo sa, magari il Télémaque non fece nemmeno in tempo ad affondare che già tutto il tesoro era stato distribuito tra gli abitanti della cittadina; resta da vedere, come dicono, se tra le argenterie di famiglia a Quillebeuf ci sia niente recante lo stemma reale. Inoltre, i fanatici delle teorie del complotto affermano che il mozzo annegato durante il naufragio altri non era che il Delfino di Francia. Alla fine possiamo ben dire che tutto è possibile e che tutto è immaginabile.

Il libro di Simenon ispirato ai fatti del Télémaque

La vicenda ha ispirato fior di scrittori, da Victor Hugo che ci si mise di mezzo con un pettegolezzo da salotto, a Georges Simenon, con il suo libro ‘I superstiti del Télémaque’ e al contemporaneo Michel Bussi, che nel suo ‘Usciti di Senna’, pubblicato quest’estate in italiano per le Edizioni e/o mescola intrighi, pirati, tesori e misteri. Magari è la lettura giusta per le prossime domeniche autunnali, con un bel tè caldo e una coperta morbida sul divano, mentre fuori la pioggia sferza i vetri e vi porta, col suo suono lento e ripetitivo, indietro nel tempo, fino al Dicembre di duecentotrentuno anni fa…

Le Pavillon de Vendôme, un boudoir grande come una villa

Visitare Aix-en-Provence è, per la maggior parte dei turisti, sinonimo di passare una giornata in compagnia di Paul Cézanne. Nulla da ridire su questo. Ma, oltre a meravigliarsi di fronte ai cimeli appartenuti al pittore, vale la pena spendere un po’ di tempo al Pavillon de Vendôme, nel quartiere faubourg des Cordeliers. Non per l’esposizione d’arte contemporanea ivi organizzata, di dubbia qualità nonché di pessimo allestimento, bensì per il favoloso giardino alla francese e per la storia di questo edificio, una villetta urbana che è una bomboniera; storia curiosa e, a suo modo, piccante. Lo so, questo non è un blog di pettegolezzi, ma fare del “gossip storico” è sempre stata una mia debolezza.

Tutto iniziò nel 1664, quando Luigi di Vendôme, duca di Mercoeur, di Beaufort, di Penthièvre e di Etampes, Principe di Martigues ed Anet, Pari di Francia, nipotino di quell’Enrico IV che disse che Parigi valeva ben una messa, nipotino par alliance del Mazzarino in persona, comperò il terreno a Aix-en-Provence. Il cuginetto, nientemeno che Luigi XIV, gli aveva affibbiato il comando delle truppe destinate alla Provenza ben dodici anni prima. Infatti Il Re Sole. stimando questo Luigi di Vendôme affidabile, pio e capace, aveva viva speranza che riuscisse a sedare le rivolte frondiste che si opponevano al Mazzarino nella sediziosa provincia meridionale. Il lavoro diplomatico del Vendôme in terra provenzale fu talmente efficace che il Re lo nominò Governatore della Provenza nel 1654. In virtù del nuovo titolo, farsi costruire un hôtel particulier era d’obbligo. I lavori furono affidati ad un architetto frammassone di Parigi che si era trasferito ad Arles, tale Antoine Matisse, soprannominato La Rivière, e ad uno scultore di nome Pierre Pavillon, che si occupò della decorazione della facciata, che vanta due bellissimi Atlanti dal volto alquanto provato per lo sforzo di sorreggere l’architrave della porta principale.

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Uno dei due Atlanti, che parrebbe aver dimenticato il forno acceso a casa

Dov’è la parte piccante che era stata promessa all’inizio dell’articolo? Beh, pare che, dopotutto, non fosse proprio il nuovo lignaggio del Vendôme a richiedere la costruzione di questo capriccio barocco. D’altra parte un Pari di Francia aveva ben poco da stupirsi nel vedersi nominato Governatore di N’importe quoi. In verità il pavillon  serviva da grande boudoir per l’amorazzo, licenzioso quanto basta per essere considerato tipicamente “alla francese”, tra il Vendôme e la deliziosa Lucrèce de Forbin-Solliès, detta anche “La bella del Canet”. Costei, nottetempo, quatta quatta si intrufolava nel pavillon, viso celato da una mascherina, accompagnata da qualche ancella fidata che avrebbe discretamente mantenuto il segreto.

A questo proposito riporto le parole dello storico Roux-Alphéran:

« le duc de Vendôme, retiré dans le pavillon qu’il avait fait bâtir au faubourg des Cordeliers, et qu’on nomme aujourd’hui le Pavillon de la Molle, y faisait introduire de nuit, par une porte de derrière, des personnes déguisées, que les paysans du faubourg appelaient malicieusement las machouettos [les chouettes]. C’est là qu’il mourut le mardi 6 août 1669, à peine âgé de cinquante-sept ans, ce qui fit dire alors aux paysans : Las machouettos an tua lou duc [les chouettes ont tué le duc]. »

Per farla breve, la coquine era fatta entrare dal duca per l’entrata sul retro, sempre accompagnata dalla squadriglia di ancelle, come uno stormo di civette, di cui la Bella era la capitana.

Capitana-civetta, a quanto pare, ammazzò di troppo amore il duca, che perì all’età di cinquantasette anni, martedì 6 agosto 1669, molto probabilmente mentre si trovava in gioioso trastullo tra le sue braccia, per non dire tra… qualcos altro.