Incontro con la giornalista e scrittrice Agnès Grossmann

DISCLAIMER: la seguente intervista si è tenuta martedì 14 agosto, prima che scoppiasse lo scandalo su Asia Argento e le accuse di violenza sessuale da parte di un giovane al tempo 17enne. Le affermazioni sulla Argento si riferiscono all’affare Weinstein.

Incontro e intervista con la giornalista e scrittrice Agnès Grossmann, curatrice del programma “Faites entrer l’accusé” del canale France2 e autrice dei libri “Annie Girardot, le tourbillon de la vie”, “L’enfance des criminels”, “Les salopes de l’histoire” e “Les blondes de l’histoire”.

Madame Grossmann ha uno sguardo penetrante, franco e luminoso. Si definisce “une grande gueule“, una persona che non tace, che non ha paura di dire la sua. Affrontiamo diversi argomenti, durante la nostra chiacchierata, senza peli sulla lingua: la sessualità, il femminile, il maschile, la società, Trump, Salvini, la pubblicità, Eddi De Pretto, Game of Thrones, gli insulti, il corpo, la bellezza, l’educazione dei bambini, #metoo, Asia Argento, il sesso ed il potere, la famiglia, la libertà, il corpo femminile.

D: Il titolo del suo penultimo libro è interessante: le puttane della storia. Si tratta di una provocazione contro chi, per insultare una donna, entra subito nel linguaggio della sfera sessuale, cosa che non avviene quando si insulta un uomo, o è in qualche modo una rivendicazione?
R: In realtà è una deliberata presa in giro di chi usa la parola ‘salope‘ (in italiano ‘puttana’) come un insulto. Qui in Francia definiamo puttana una donna la cui sessualità è libera e senza inibizioni non con malevolenza o fare denigratorio. Le donne che definiscono salopes le altre donne in genere lo dicono quasi con invidia, gli uomini con ammirazione. Cleopatra, Messalina, Mata Hari… erano tutte delle salopes.

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Il titolo è un manifesto, come a dire: “I’m a slut, so what?” Nel libro parlo di donne quali Giuseppina Bonaparte, Caterina la Grande… ho cercato di mettere in evidenza come il sesso abbia significato potere per le donne, nel passato, quando esse esistevano solo in funzione degli uomini. Il sesso era un modo per esistere, per esserci, per accedere al potere e poter essere riconosciute dagli uomini come interlocutori alla pari.
D: Cosa pensa del movimento #metoo?
R: Sono assolutamente a favore e trovo che Asia Argento sia stata di un coraggio fuori dall’ordinario per ammettere e farsi carico di certe cose. Il fatto che questa onda sia nata da Hollywood, l’olimpo delle apparenze, è emblematico di un risveglio delle coscienze generale. Molte femministe della prima ora, che avevano perduto ardore o entusiasmo, si sono scrollate di dosso la polvere e ci stiamo tutti rimboccando le maniche perché le cose cambino. A mio giudizio dovremmo ripartire dalla sessualità, dal sesso, dall’educazione al sesso, perché sì, c’è stata la liberazione sessuale e oggi possiamo fare coming out senza andare in prigione o dormire con degli uomini fuori dal matrimonio senza problemi, ma siamo davvero liberi? Io non penso: c’è una pressione mediatica sui corpi umani, una sovraesposizione del corpo femminile che è tossica e diseduca gli uomini, specialmente i più giovani, e atterrisce e angoscia le donne. Penso anche ad un certo tipo di pornografia alla moda al giorno d’oggi: pare che i più giovani fruitori del porno credano che le donne siano senza peli corporei, come se fossimo tutte glabre e senza imperfezioni.
D: O che il sangue mestruale sia in realtà blu, come quello dei Puffi…
R: Esatto… a questo non avevo mai pensato… beh, io vorrei che il corpo femminile fosse meno esposto, che non fosse più, ancora, visto e considerato come un bottino di guerra. Ma d’altra parte desidero anche la liberazione degli uomini da questi canoni assurdi imposti da una società maschilista che non perdona la debolezza, non perdona l’impotenza… siamo stati educati che l’uomo vero ce l’ha sempre duro… ma non è vero! Ci sono tanti uomini veri che piangono, sono deboli, hanno paura e a cui non viene duro, ma c’est pas grave! Non sono “meno uomini” a causa di queste cose.
D: Come canta Eddy de Pretto, siamo tutti vittime della virilité abusive, la virilità abusiva che vuole gli uomini sempre macho e le donne sempre disponibili.
R: Giusto! Io sono cresciuta in una famiglia molto maschilista e in cui le apparenze e la bellezza esteriore contavano molto. Mio padre era il classico macho, forse per proteggersi e non mostrare le sue debolezze, ma anche mia madre era maschilista, perché d’altronde le donne stesse sono state, nei secoli, complici del maschilismo, di questa società patriarcale da cui siamo nati noi.
D: Come interpreta/concilia/giustifica questa presa di coscienza generale con le scelte politiche che ultimamente sono state fatte in diversi paesi occidentali? Gli U.S.A. hanno eletto il repubblicano e maschilista Trump, in Italia è stata eletta la Lega di Salvini, che non brilla per femminismo, in Ungheria l’estrema destra è al potere e in generale un po’ ovunque c’è una recrudescenza destroide poco incline a prestare attenzione a queste istanze.
R: Sarei propensa a dire che, paradossalmente, tutto questo non fa altro che destare reazioni e stimolare le persone a pensare di più e ad agire. Guardi gli Stati Uniti: Trump stimola delle reazioni contrarie, genera rabbia, rappresaglia, voglia di agire e di cambiare le cose.

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Mi sarei preoccupata di più se nessuno avesse alzato un dito e se tutti avessero assecondato senza proferire verbo le scelte e le affermazioni di Trump.
D: Lei è madre un figlio maschio. Come affronta il tema della sessualità e del consenso, come sta gestendo l’educazione di suo figlio?
R: Cerco di dire le cose come stanno: che no è no e che se tu ti fermi quando ti viene detto no, poco importa quello che stai facendo, non avrai mai problemi nella vita. Gli ho spiegato come funziona la riproduzione: ha dieci anni, ma non ho mai usato diminutivi ridicoli per le parti del corpo. Lui sa tutto, sa di avere un pene, dei testicoli, che le donne sono fatte in modo diverso, che i bambini nascono così e così… di sicuro sta crescendo in un ambiente non maschilista, perché lo sto tirando su da sola.
D: Ha guardato la serie Game of Thrones?
R: Solo la prima stagione e mi sono detta ‘Tiens, è proprio una serie per uomini. Qua ci sono delle attrici stupende sempre nude.’
D: In effetti sono state sollevate molte questioni riguardo la sovraesposizione del corpo femminile in G.o.T. Magari è per questo che con il tempo le cose si sono ribaltate e di donne nude se ne sono viste sempre di meno e, anzi, c’è stato addirittura il primo piano di un pene verrucoso. Senza dimenticare il ribaltamento degli equilibri politici all’interno della storia, che ha visto una netta rivincita delle donne e una loro presa di potere.
R: Mi incuriosisce, voglio finire di guardarla.
D: La ammiro davvero, perché non ha paura di dire la sua ed è una donna libera e molto coraggiosa.
R: Io non mi sento libera, sono ancora prigioniera di tanti nodi che non ho sciolto, nella vita. Credo che una persona sia davvero libera solo quando sa usare sapientemente tutti gli strumenti che ha a disposizione e io sento di non essere arrivata a questo punto, non ancora.

Ho da poco terminato la lettura di “Les salopes de l’histoire”. È un’interessante raccolta delle vite private, amorose e sessuali di donne come Cleopatra, Madame du Barry, Caterina la Grande e Mata Hari: sono analizzate, quasi scandagliate, con piglio giornalistico e stile diretto, godibile. Il volume è edito dalla casa Acropole. Nella stessa serie è appena uscito “Les blondes de l’histoire”.

A breve la stessa intervista in inglese e in francese.

Intervista a Werner Bokelberg: vedere Dalì in bianco e nero

Intervista del 23 giugno 2016 a Werner Bokelberg (sito web: http://www.bokelberg.com/).
Il signor Bokelberg mi ha gentilmente concesso un incontro nella sua bella casa nel sud della Francia. Per comunicare abbiamo usato la lingua inglese. Qui propongo il resoconto in italiano, ma presto pubblicherò anche la trascrizione di come si è svolta in inglese a beneficio dei lettori stranieri, se ve ne saranno.

Nato a Brema nel 1937, Bokelberg intraprende la carriera dell’attore per poi correggere il tiro ed orientarsi verso la fotografia. Il suo strumento principale è il bianco e nero, che caratterizza tutta la sua produzione.
Lui e sua moglie mi accolgono con cortesia squisita nella bellissima dimora in cui passano le loro vacanze estive. Non solo ho il piacere di trascorrere quasi un’ora in sua compagnia, ma mi permette di registrarlo e di portare via con me una copia del volume Da-Da-Dalì. Proprio da quest’opera e dalle foto al suo interno inizia la nostra conversazione. Il libro in questione è il lavoro a quattro mani di Bokelberg e Dalì, un insieme delle loro arti, la fotografia per il primo e se stesso per il secondo. Da questo volume, edito nel ’66, ma le cui foto furono scattate nel ’64, la nostra intervista spazia verso Picasso, la fotografia oggi, le mode e le mediocrità, il valore del bianco e nero.

Domanda: Prima domanda, forse un po’ banale, ma non posso fare a meno di chiederlo: com’era Dalì?
Risposta: Meno pazzo di quanto sembrasse dal di fuori. O meglio, la sua follia non era follia come la intendiamo normalmente: era la sua essenza, la sua natura, lo strumento con cui lavorava, senza il quale non sarebbe stato Dalì. Ed in questo era davvero professionale.
D: Come andò sul set fotografico di Da-Da-Dalì? In che modo ha visto la luce questo volume?
R: Era la mia prima volta in Spagna; quando arrivai, dopo un lunghissimo viaggio da Amburgo, mi dissero anche avrei dovuto trovare un sacco contenente cento chili di fagioli secchi. Non sapevo dove trovarli, non parlavo nemmeno spagnolo, eravamo in una piccola cittadina e mi ci vollero delle ore per trovarli. Una volta trovatili, tornai al luogo dell’appuntamento e vidi Dalì con questa ragazza completamente nuda, con un guinzaglio al collo ed un cucciolo di ghepardo. Eravamo al bordo di una piscina all’aperto vuota. Dalì si mise subito al lavoro, mi disse: “Eccoti qui, dammi i fagioli.”  E poi le foto parlano per me: versò i cento chili di fagioli secchi addosso alla modella che se ne stava sul fondo della piscina vuota, in un angolo. Questa era arte, non era follia.
D: Mi fa quasi pensare alle performance shock di Marina Abramovic. La gente la taccia spesso di pazzia ma tutta la sua opera è un unico statement.
R: In un certo senso sì.
D: E da questa vostra collaborazione artistica ne è nato il volume Da-Da-Dalì.
R: Sì, io curai le foto, ma il layout del libro fu tutta opera di Dalì.

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Uno scatto dal volume Da-Da-Dalì
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Uno scatto dal volume Da-Da-Dalì

D: Lei ha lavorato anche con Picasso…
R: No, non posso dire di averci lavorato. Lo ho ritratto, questo è vero, in una sola sessione, ma non abbiamo collaborato come ho fatto con Dalì. D’altra parte Picasso è stato ritratto da molti. Quando un personaggio del suo calibro viene fotografato più e più volte nel corso del tempo e da tanti obiettivi diversi avviene solo per immortalarlo come era in quel momento esatto, quando stava attraversando quel periodo o quell’altro, e come era dieci anni prima, o dieci anni dopo, e si fa anche un confronto tra la sua apparenza fisica, la moda del tempo, il suo stile pittorico in quegli anni… non si cerca lo sguardo del fotografo, in questi casi: è il soggetto che fa tutto da sé, per la sua importanza e per la sua fama. E d’altra parte è solo un ritratto, non è un progetto, un lavoro.

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Particolare del ritratto di Picasso ad opera di Bokelberg.

D: Oggi la fotografia è molto più “in vista” di quanto non lo fosse nei decenni passati. Le mostre sono tantissime…
R: Troppe.
D: Beh, è considerata oramai un’arte alla portata di tutti: dalle applicazioni per gli smartphone ad una certa moda, una sorta di posa che molte persone amano assumere per darsi un tono, specie sui social network. Lei che ne pensa?
R: Mettiamola così: oggi tanti fotografi mediocri hanno la possibilità di fare delle belle foto, ma solo per caso, per un momento fortunato in cui riescono a catturare la luce e il soggetto in un modo che riesce ad esprimere qualcosa. Se però gli viene chiesto di ripetere lo scatto, non avranno alcuna idea di come replicarlo. Un fotografo vero lo sa rifare, invece.
D: Che cosa pensa della tecnologia che si è sviluppata dietro la fotografia, oggi?
R: Prima per produrre una bella foto ci si doveva pensare molto, e non si poteva esagerare nel numero di scatti per sessione, perché il materiale non era infinito, la pellicola dopo un po’ si esauriva. Ora invece si possono fare centinaia e centinaia di scatti per poi correggerli e migliorarli digitalmente. Quella è fotografia? No, io la chiamerei piuttosto un modo per produrre delle belle immagini. Immagini, non foto.
D: La sua scelta del bianco e nero è esclusiva. Nell’immaginario comune il passato è in bianco e nero, forse perché le vecchie fotografie e i vecchi film ci hanno abituati a questo. In genere si dice che una volta le persone erano più belle, tutto era più bello, anche grazie all’aura di mistero e di opacità conferita dal bianco e nero. Lei è d’accordo?
R: Sì, forse. Ma non bisogna dimenticare che una volta farsi fotografare era un avvenimento molto importante e raro, per cui le persone ci tenevano ad apparire al meglio. Ora la fotografia è presente nella vita di tutti i giorni, e questo ha delle conseguenze anche sul piano estetico.
D: Beh, anche nelle vecchie Polaroid le persone sembravano più belle che adesso, forse perché erano giovani…
R: Merito è anche della patina della polaroid e dello sbiadire del colore nelle vecchie pellicole.
D: Ora le Polaroid sono tornate di moda. Che ne pensa?
R: Che non fanno nessun danno.
D: E del selfie?
R: Che è narcisismo puro e senza senso.
D: Lei parla della fotografia in modo molto prosaico e distaccato, come se fosse un mero strumento per rappresentare la realtà e non come un’arte alla stregua della composizione musicale, della pittura o della scultura.
R: Questa constatazione è interessante. Sì, non posso negarlo. Credo che questa sensazione sia legata alla brevità dell’atto dello scatto. Un pittore impiega molto tempo per produrre la sua tela, un compositore suda sullo spartito per partorire una melodia. La fotografia, per quanto a lungo si possa studiare un soggetto e le migliori condizioni per ritrarlo, è così immediata e breve che è difficile possa comunicare di più o più intensamente di un’opera su cui si è lavorato a lungo, in cui si è riversata una parte di sé. La fotografia era molto più “arte” al tempo dei pionieri come Nadar, quando la posa di un soggetto e la sua presa duravano diversi minuti, un tempo più consistente, in cui il creatore e il soggetto avevano più possibilità di infondere qualcosa della loro interiorità in quello che stavano facendo rispetto ai fotografi più recenti. Le foto di allora mostravano davvero di più. In questo senso io non vedo la fotografia come un’arte, ma come un mezzo di rappresentazione estetica della realtà.

Lascio casa Bokelberg con le mani piene di un volume di Da-Da-Dalì, un taccuino per scrittori e una raccolta di vecchie foto in formato cartolina della Saint Tropez dei primi del novecento che lo studio Bokelberg ha rieditato (sempre per restare in tema di bianco e nero, vecchio e nuovo).
I signori Bokelberg sono stati gentilissimi e conserverò nel cuore il ricordo di un’ora piacevolissima trascorsa insieme ad un maestro e ai suoi ricordi professionali.

Intervista: le jour du débarquement, la storia nei ricordi di chi l’ha vissuta.

Intervista del 16 gennaio 2015 alla signora Roseline Martin, vedova ottantaseienne di La Croix Valmer, uno dei paesini della costa sud della Francia che furono teatro dell’Operazione Dragoon nell’agosto del 1944.

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Domanda: Lei ricorda tutto?
Risposta: Certo, avevo quindici anni.
D: Potrebbe raccontarmi, per prima cosa, quale clima ha respirato nel periodo dell’occupazione straniera, prima che avvenisse lo sbarco degli alleati?
R: In verità noi di queste parti non abbiamo vissuto momenti particolarmente drammatici. Sì, eravamo occupati, prima dagli italiani, poi dai tedeschi, era la guerra, ed è sempre orribile, ma cercavamo di continuare a vivere normalmente, a scapito della paura e della morte. Le famiglie di emigrati italiani erano quasi contente dell’occupazione, specialmente all’inizio, quando delle batterie fasciste si erano acquartierate da queste parti. Speravano in qualche beneficio, in assegnazioni di terre e di beni. Mio padre non li poteva sopportare, anche a guerra finita: non faceva che ripetermi di non portargli mai in casa un italiano come genero, un Rital!
D: Rammenta qualche episodio in particolare riguardo le truppe italiane?
R: Sì, un fatto che spaventò molto la mia famiglia per le conseguenze che avrebbe potuto avere. Avevamo un cavallo, alla fattoria là a Collebasse, era vecchio e malato. Il veterinario di Saint Tropez che avevamo mandato a chiamare apposta disse che andava abbattuto. Gli praticò un’iniezione per sopprimerlo e noi di casa lo seppellimmo da qualche parte nei nostri terreni. Fatto sta che, a causa della mancanza di viveri, i soldati della guarnigione italiana lo trovarono, lo disseppellirono e ne presero diverse parti per cucinarlo e mangiarlo. Mia madre, non sapendo se fosse possibile mangiarlo a causa dell’iniezione del veterinario, andò in bicicletta fino a Saint Tropez per chiedere al dottore se doveva avvisare gli italiani. Il dottore, spaventato, disse che era pericolosissimo cibarsi di quella carne. Così la mamma pedalò più veloce che poté, ritornò qui e corse al quartier generale per avvisare di non mangiare in alcun modo la carne del’animale. Dio solo sa che cosa sarebbe potuto succedere se i soldati avessero consumato il cavallo! Tutta la famiglia ci sarebbe andata di mezzo!

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D: Sentì mai notizie di famiglie ebree della zona, magari, che durante il Governo di Vichy e la successiva occupazione tedesca furono deportate?
R: No. Giravano invece diverse voci su giovani che si univano alla resistenza partigiana. Era tutto molto segreto, non si doveva parlarne in alcun modo, ma le notizie circolavano, sebbene su a Collebasse fossimo isolati. Anche mio cugino, nel suo piccolo, compiva azioni di resistenza. Ad esempio tagliò i fili del telefono della caserma dei soldati. Al tempo ci sembravano delle ragazzate, visto che lui era adolescente, ma ripensandoci erano veri e propri atti di ostruzione e resistenza.
D: Passiamo al giorno dello sbarco. Avevate il sentore di ciò che stava per succedere?
R: Sì, sapevamo, vedevamo che gli americani venivano a bombardare. Dai tedeschi avevamo percepito che nell’aria c’era qualcosa. Dopotutto era successo da poco in Normandia (6 giugno 1944 n.d.a.), era previsto che gli alleati arrivassero a salvarci. Furono i primi a sbarcare, gli americani. I francesi aspettarono sulle navi. Erano i soldati americani a fare l’avanguardia. Erano la “truppa di shock”, non avevano paura di nulla, ma loro di paura ne facevano eccome!
D: Ho sentito francesi nativi della Normandia esternare astio nei confronti degli americani i quali, seppur venuti per liberarli dai nazisti, non hanno mancato di farsi una cattiva fama, violentando le donne locali e rubando ai contadini. Questi fatti sono avvenuti anche qui in Provenza?
R: Beh, con gli americani no, sebbene, come ho già detto, le truppe d’assalto facessero molta paura. Penso fossero composte di soldati bruti, il cui aspetto stesso spaventava. Ma le violenze sessuali sono accadute quando c’erano i tedeschi. Avevano integrato nell’esercito d’occupazione gente della bassa Russia… non so… qualcosa di simile. Invece di tenerli come prigionieri li avevano impiegati come soldati della loro armata. Beh, quelli sì che erano dei selvaggi, hanno stuprato e fatto cose orrende. Quelli sì. Pure i nazisti ci facevano paura, specialmente perché mia madre, che era belga e aveva vissuto l’invasione del Belgio nella prima guerra mondiale, ci raccontava sempre delle nefandezze fatte dai soldati tedeschi nei confronti della popolazione civile.cogolin.jpg
D: Il giorno dello sbarco vero e proprio che cosa è successo?
R: Il ricordo più vivido che ne ho è l’odore della polvere sollevata dalla bagarre, acre, penetrante. E la visione della luce causata dalle esplosioni, come dei fuochi d’artificio alla rovescia. La notte tra il 14 e il 15 agosto ero a casa con la mia famiglia e sentimmo dei rumori fortissimi. Capimmo che era arrivato il momento che stavamo aspettando da tempo. Dovevamo nasconderci e metterci al sicuro. A questo scopo mio padre aveva scavato una trincea, in giardino, ricoperta da una spessa lamiera. Corremmo a ripararci là sotto, tutta la famiglia salvo mio cugino Walter, belga come mia madre, che era rimasto con noi perché lo scoppio della guerra lo aveva bloccato in Francia; lui andò a nascondersi sotto un cumulo di aghi di pino che serviva da lettiera per i cavalli. In breve tutta la vallata fu bombardata dagli alleati che venivano a liberarci e che cercavano di stanare i nazisti nascosti nel bunker di Villa Nenno. Penso che gli americani cercassero anche di far brillare le mine messe in tutti i campi e in tutte le vigne dai tedeschi. Ricordo che c’era una gran nebbia, artificiale, presumo, emanata dagli alleati durante lo sbarco per un maggiore effetto sorpresa. Nostro padre non faceva che ripetere: “Passerà tutto! Passerà tutto!” ma non eravamo affatto rassicurati dalle sue parole. Alla fine di quella nottata interminabile i colpi cessarono e fummo capaci di tornare in casa. Verso mezzogiorno un gruppo di soldati tedeschi arrivarono a casa nostra, le mani in alto, ripetendo: “Moi, pas kaput!“. Quasi allo stesso momento, un contingente americano fece arrivo e i tedeschi si arresero seduta stante, consegnando le loro armi. Successivamente mio fratello Jean accompagnò gli alleati per indicare loro i sentieri che dovevano condurli fino a Saint Tropez e a Ramatuelle. Prima di partire, però, vennero da noi a portarci scatole di conserva, caffè solubile e uova in polvere, che qui non erano ancora diffuse. Non parlando inglese, ci spiegarono di che si trattava indicando la scatola e facendo il verso della gallina. C’erano anche dei soldati neri, alti, e dei marocchini. Uno di essi mi fece un regalo: una piccola teiera azzurra che ho conservato per molto tempo. Sono stati dei begli incontri, erano persone gentili e sorridenti e ci hanno portato la libertà e la pace. Il 15 agosto per me è un miscuglio di emozioni fortissime che si uniscono al ricordo della mia famiglia e al sapore della paura degli anni di guerra e della libertà portata dai soldati che venivano da oltre l’oceano.

De amore gallico con Roseline Martin.