Pillola: il fardello franco-arabo

Fardello è una parola che, quando la si incontra per la prima volta, da piccoli, può erroneamente far pensare ad un vezzeggiativo. Invece si tratta di un peso, fisico o psichico.

Una parola bizzarra, che l’italiano ha preso al francese: in effetti pare che, prima di essere fardeau, la parola che designava il peso da portarsi appresso era fardel. Questo termine non è entrato solo in italiano: anche in inglese esiste fardel, sebbene sia etichettato come desueto e i parlanti preferiscano la parola burden, complice Rudyard Kipling.

E allora, in francese, da dove salta fuori? Ebbene, pare che sia derivata da una parola araba: farda è infatti, nella lingua semitica, la soma del dromedario, il carico dell’animale.

Le lingue ci indicano quali vie inaspettate la Storia ha intrapreso nei secoli, e come gli uomini si siano ingarbugliati tra loro coi pensieri, con il cibo, con le credenze e con le guerre. Ci raccontano storie inaspettate e intrighi sconosciuti.

Le lingue saranno sempre un passo avanti a noi.

Pillola: gemelli del segno dei Gemelli che indossano gemelli e guardano col binocolo

Des jumeaux des Gémaux qui portent des boutons de manchette et qui regardent avec une paire de jumelles.

In francese i fratelli gemelli sono detti jumeaux. Tuttavia la stessa parola non è usata per indicare il segno astrologico, che invece si dice Gémeaux: i due termini sono quasi uguali. Come per l’inglese (Gemini) la parola usata per il segno zodiacale ha una parentela più stretta col latino. In effetti jumeaux è un’evoluzione più recente di gémeaux.

Insomma, quelli nati tra il 21 Maggio e il 21 Giugno sono di un segno zodiacale che porta un nome in ancien français.

Ma i gemelli che invece mettiamo sui polsini delle camicie? In francese li si chiama semplicemente boutons de manchette, con buona pace di Agenore che cerca i gemelli prima di andare alla festa e lasciar così campo libero a Peter Pan e ai Bimbi Sperduti.

Ma la cosa più strana è che, se noi italiani abbiamo visto una sorta di gemellaggio tra i bottoni delle maniche di camicia, Oltralpe ad esser considerati un oggetto gemellare sono invece nientemeno che i binocoli, appunto chiamati jumelles, cioè ‘gemelle’.

Quindi potremmo dire che ci sono due gemelli del segno dei Gemelli che portano dei gemelli e che guardano la costellazione dei Gemelli insieme a due gemelle del segno dei Gemelli usando un binocolo.

Il y a deux jumeaux du signe des Gémeaux qui portent des boutons de manchette et qui regardent la constellation des Gémeaux avec dex jumelles du signe des Gémeaux en utilisant des jumelles.

Il mio primo articolo su ‘Il Mercurio’

Ai lettori di De amore gallico un invito personale alla lettura del mio primo articolo su ‘Il Mercurio’, la sezione di approfondimento linguistico, etimologico e storico del sito ‘Una parola al giorno’.

Vi ricordo inoltre l’appuntamento bisettimanale del venerdì, sempre con UPAG, per l’analisi di una parola della lingua italiana di radice semitica, commentata e spiegata da me.

Buona lettura e grazie a chi mi segue e apprezza il mio scrivere ed il mio divulgare.

Maria Costanza

Pillola: la salopette tra sessismo, insulti, sporcizia e denim.

Comincio questa pillola con una dichiarazione di intenti: parlerò della salopette, di prostitute, di sessismo, di insulti, di linguaggio volgare.

Penso che tutti gli sventurati nati tra gli anni ’70 e ’90 siano in possesso di una foto della loro infanzia in cui sono ritratti in salopette (magari in braccio alla mamma, anch’ella abbigliata in salopette).

Un indumento spesso di denim, resistente, adatto per i lavori pesanti, per le mansioni che fanno sporcare. Ci immaginiamo i pionieri alla ricerca dell’oro di Eldorado intenti a setacciare le acque di rivoli magri vestiti di una lercia salopette, un cappello da cow-boy, stivaloni consumati e una pipa fumante all’angolo della bocca.
In generale, dunque, la salopette è lercia. Ed è proprio da lì, dal concetto di sporcizia che deriva il suo nome: il verbo saloper, di registro informale, addirittura très familier, significa infatti ‘insudiciare’. La radice del verbo ci riporta senza problemi a ‘salir‘, uno dei primi falsi amici che si incontrano nello studio del francese, e che non significa ‘salire’, come potrebbe sembrare di primo acchito, ma ‘sporcare’, stavolta di registro né formale né informale, semplicemente in francese corretto. Per farla breve: ‘saloper‘ lo potete strillare in preda ai nervi a vostro figlio che vi ha imbrattato tutto il piano della cucina appena lavato con il miele, ‘salir‘ è un passepartout.

Ma per chi parli correntemente français, c’è un’altra parola che risuona nella testa, quando si parla di salopette, e si tratta di un insulto. Se si è donna c’è la possibilità di esserselo sentito rivolgere almeno una volta nella vita; se si è uomo, no. Sto parlando di ‘salope‘, un termine che è in giro sin dal XVII secolo e che veniva usato per denigrare uomini e donne indifferentemente, dando dello ‘zozzo’, del ‘disgustoso’, dello ‘schifoso’. Oggi questa parola è l’equivalente dell’italiano ‘troia’, ‘puttana’, ed è utilizzata solo per le donne. Se si vuole insultare un uomo si può urlargli dietro ‘salopard!‘ (sempre della stessa famiglia), ovvero ‘stronzo!’, ‘infame!’, oppure si può usare la parola cugina, ‘salaud!‘, con lo stesso significato e diretta discendente del preciso ‘salir‘.

Se si vuol inveire contro una donna, la sfera linguistica a cui i linguaggi hanno sempre attinto abbondantemente è quella sessuale, ma se si tratta di un uomo, allora no. Un atto di sessismo linguistico contro cui mi batto costantemente, un aspetto che aborrisco dal profondo.

Insomma, una vera saloperie.

Novità per De amore gallico!

Inizia oggi una collaborazione tra me e il sito di approfondimento linguistico, lessicale ed etimologico “Una parola al giorno“. A venerdì alterni curerò la parola del giorno, sempre di origine semitica, per scoprire insieme a voi come i commerci, le tradizioni religiose e più in generale la Storia hanno portato nella lingua italiana termini come sciroppo, alchimia, giubileo, nati nel deserto arabo o sulle sponde del Giordano e giunti fino a noi… Stay tuned – molto altro bolle in pentola!

Oggi venite a scoprire la parola del giorno, sciroppo.

Anche se non è un argomento legato alla Francia e alla cultura francese, ci tenevo moltissimo a condividere con i lettori di De amore gallico questa notizia. Grazie a tutti!

I numeri nella lingua francese e la soluzione dei belgi

Chiunque si sia accostato all’apprendimento del francese ha dovuto far fronte ad una difficoltà da non sottovalutare: i numeri.

Fino al sessantanove nessun problema. Dal settanta in poi iniziano i guai.

Sessanta e dieci = 70
Sessanta e undici = 71
Sessanta e dodici = 72

Eccetera fino ad arrivare al tanto temuto ottanta: quattro venti.

Quattro venti e uno, e due, e tre e quattro… e dieci, e undici, e dodici…

(4 x 20) + …

Ricordo che alla scuola media snobbavo la lingua francese, preferendole l’inglese, e detestavo cordialmente la matematica. La fusione delle mie due nemesi scolastiche fu l’argomento che mi valse uno dei peggiori voti mai avuti.

Mi ci sono voluti ben due anni di permanenza stabile in Francia per riuscire a gestire con facilità la numerazione vigesimale, anche se, come tutti sanno, si conta, si prega e si insulta sempre nella propria lingua madre.

Sono andata a dare un’occhiata all’origine di questo sistema e ho trovato la seguente spiegazione nel sito dell’Accademia di Lione:

Difficile de comprendre la suite des noms des dizaines. Cela commence par dix, vingt. Puis, tous les noms suivants se terminent par le suffixe -ante. Puis un mélange avec soixante-dix et retour de “vingt” dans quatre-vingt, quatre-vingt-dix.

Pourquoi ce changement alors que cela semblait plus être logique de continuer à mettre -ante à la fin de chaque mot?

Actuellement, personne ne peut dire exactement le pourquoi, mais voici quelques éléments pour comprendre :

Au Moyen-Age, les gens comptent par paquet de vingt : vingt-dix (30), deux vingt (40), deux vingt-dix (50), trois vingt (60), trois vingt-dix (70), quatre vingt (80), quatre vingt dix (90). L’origine de ce comptage remonterait aux Celtes, qui auraient influencé les Gaulois.

A la fin du Moyen-Age, les langues évoluent et de nouveaux mots apparaissent dont trente, quarante, cinquante, soixante, septante, octante, nonante qui sont basés sur un comptage de dix en dix.

Ce n’est qu’au XVIIe Siècle, l’époque où l’on rédige les premiers dictionnaires que la décision est prise d’utiliser les mots en usage aujourd’hui : dix, vingt, quatre-vingt, quatre-vingt-dix de l’ancien système ; trente, quarante, cinquante, soixante.

Certains historiens avancent que l’usage de soixante-dix, quatre-vingt et quatre-vingt-dix auraient été conservés car ils facilitent le calcul mental.

Non paga di questa spiegazione, ho cercato ancora e ho scoperto dal Wikizionario che l’antico popolo Vascone, originario della Navarra e da cui discendono i Baschi e i Guasconi ( e quindi anche D’Artagnan), utilizzava il sistema vigesimale. L’origine risiede nel numero totale di dita del corpo umano: la base dieci è più immediata, forse, perché abbiamo dieci dita della mani, ma in tempi in cui ancora non si usavano calzature, come 20 000 anni fa, esattamente dopo l’ultima glaciazione, era normale tenere in considerazione anche le altre dieci laggiù. Che siano stati dunque i Vasconi a suggerire il sistema ai Celti, i quali poi lo hanno trasmesso ai Galli?

Con una punta di ironia più che sapida viene da affermare che i francesi, nello scegliere questo modo di contare, abbiano voluto distinguersi e mettersi bene in mostra. Io dico pure che è per far dispetto agli altri, tanto per rendere ancor più difficile il tutto.
Questa cervellotica e machiavellica cospirazione numerica gallica mi fa pensare a quanto le cose siano complicate nella lingua araba: infatti nell’arabo classico, se si conta un oggetto il cui genere è maschile, l’aggettivo numerale sarà declinato al femminile e viceversa, con trappole sparse qua e là quando di mezzo ci si mettono le decine e le centinaia, che costituiscono esse stesse delle “cose contate” (es. due  di centinaia e nove di scarpe = 209 scarpe). Quel bazar!

I belgi, benedetti loro, che per ammissione degli stessi francesi sono “dei francesi simpatici” (e io potrei metterci la mano sul fuoco visto che una delle mie più care amiche è belga) e gli svizzeri sono francofoni meno integralisti e perciò hanno adottato un sistema che non costituisce un ostacolo all’apprendimento della lingua per chi coi numeri ha sempre fatto a cazzotti sin dall’asilo.

Quanto è piacevole e familiare sentir dire septante, huitante e nonante!

Pillola: dell’intraducibilità del “taquiner”

Uno degli ostacoli culturali con cui sento di dover far fronte quotidianamente e spesso in modo sfiancante ed esasperante è la tendenza del popolo francese a taquiner, a embêter il prossimo senza soluzione di continuità. Dal posto di lavoro all’intimità della casa, dalla fila al supermercato alla visita dal veterinario mi trovo spesso disarmata di fronte a degli exploits di uno spirito che reputo troppo frequentemente déplacé.

Sarà che la lingua francese l’ho appresa da adulta, e così i codici di comunicazione e i registri ad essa pertinenti, ma la sento spesso assai distante rispetto all’inglese. Specie quando non ho la battuta pronta per rispondere alle taquineries del capo al lavoro o al fare embêtant del mio compagno: saltano fuori liti domestiche che spaziano dal “Voi italiani raccontate tutti i fatti vostri a tutti anche per la strada!” al “Voi francesi siete coincés e insopportabilmente arroganti!”.

Il peggio arriva quando devo spiegare ad un italiano che conosce poco la civiltà e la società francesi che cosa è il “taquiner”. Ci provo chiamando in causa la gallina ed il suo movimento di testa mentre becca i semini al suolo, ma mi rendo conto che solo chi subisce un quotidiano piccarsi e ripiccarsi con gli altri può davvero realizzare il senso profondo ed esasperante di questa azione si française!

L’argot franco-arabo spiegato agli italiani

Lingue come l’italiano, il francese, lo spagnolo e l’inglese, durante i secoli, hanno integrato nel loro vocabolario molti termini derivanti dalla lingua araba: sciroppo, azzardo, alcool, algebra, zenit, azimut, nadir, algoritmo, cifra, elisir, alambicco, magazzino, assassino, bizzeffe, fondaco, sensale, zerbino, marzapane, sambuco, materasso… In linea di massima si può dire che molto lessico astronomico, matematico e chimico vanta origine semitica.
Quando ero all’università e sudavo settanta volte sette camicie per superare l’esame di vocalizzazione, non avevo molta voglia di soffermarmi su queste raffinatezze della linguistica, preoccupata com’ero di riuscire ad arraffare un voto decente che non facesse piovere disonore sul mio libretto accademico e colare a picco la mia media. Ora, di tanto in tanto, ho piacere nell’andare a sfogliare i miei appunti e trovare collegamenti inimmaginabili e sorprendenti, analogie inaspettate e luccicanti come insetti rari della Foresta Amazzonica della linguistica.

Abitando in Francia, poco lontano da una città dalla fama levantina come Marsiglia, mi sono imbattuta in prestiti linguistici dall’arabo al francese che sono ben lontani dall’essere le “voci dotte” o dall’avere gli illustri etimi cui sono abituata grazie ai miei studi. Si tratta infatti di parole entrate nel lessico quotidiano familiare francese che danno al discorso un arrière-goût da gangsta-in-da-ghetto. Io stessa ho imparato ad usare con disinvoltura qualcuno di questi termini (ed altri, assai volgari e ben conosciuti e non di origine araba) per farmi valere nelle fasi più concitate di una discussione con gente che riesce a capire un discorso solo se corredato da una buona dose di violenza verbale. Come se un francese che vivesse in Italia ed iniziasse a discutere animatamente per un vicolo di Napoli con una vaiassa: se non in grado di usare un po’ del gergo partenopeo più tagliente, la battaglia è persa in partenza.

Per esempio il verbo fottere, usato sia per indicare il coito che per parlare di un imbroglio (subìto o perpetrato) si dice niquer. La parola viene da  ناك  che si legge nāka e che vuol dire appunto fottere. E per fottere serve lo zob, cioè il pene.

Il dottore è il tubib, dall’arabo classico طبيب ṭabīb. La prima vocale è cambiata, probabilmente perché il prestito in francese viene dall’arabo magrebino delle ex-colonie, che reca delle differenze rispetto all’arabo classico.

Quando qualche cosa ci piace possiamo dire Je kiffe. Kiffer infatti viene da una parola dell’arabo del Mashreq (Iraq, Siria, Giordania, Palestina) che vuol dire “piacere, apprezzare”, ma kif-kif (da كفء ) significa invece essere alla pari, dividere egualmente una spesa o aver pareggiato il conto .

Qualche volta è possibile sentir dire kawa al posto di café. Questo perché in arabo il caffè è qahwa, قهوة. L’aspirazione della h è sparita e ha lasciato una parola piana, svelta, rapidissima, quasi svogliata.

I francesi di origine magrebina spesso durante le vacanze tornano al bled, cioè “al paese”. Questo termine viene da بَلَد , balad, che significa “paese” e anche “villaggio”.

Il mio clebs si chiama Mario ed è un bellissimo continental bulldog di un anno e tre mesi. Cane in arabo si dice كلب kalb. In arabo è possibile utilizzare questa parola come insulto. In effetti nella società araba i cani godono di minor ammirazione e affetto rispetto ai gatti (قِطّ, ovvero qitt, che a me ricorda molto l’inglese kitty).

Per uscire la sera e andare a fare nouba con gli amici, cioè la festa, serve il flouze, cioè i soldi, altrimenti bisogna essere proprio un maboul, un matto, e rischiare di dover tornare a casa di notte a piedi anziché in taxi. In quel caso servirebbe la baraka divina per non farsi aggredire da qualche lascar (ceffo) al buio! Se quindi non c’è flouze, allora walou (niente, nada, nisba)! Spesso la penuria di soldi per uscire e divertirsi è causa di seum, ovvero rabbia, nervosismo e frustrazione.

Però tra poco è Natale e i parenti dovrebbero mettere qualche soldino sotto l’albero come regalo… chissà, magari mi ci posso comperare qualche cosa che kiffo particolarmente!

Quando mi dicono che sono “bravo!”

Non sempre accade, ma quando mi sento dire “Bravo!” qualcosa stona alle mie orecchie. Come biasimarmi, visto che io invece mi sento “brava”? Vaglielo un po’ a dire, ai francesi!
Sono andata a dare un’occhiata all’etimo della parola e a fare qualche ricerca translinguistica, memore delle minacce a Don Abbondio, del cuore impavido di Mel Gibson e di “Bene, bravo, sette più!”. Quello che è venuto fuori è molto interessante e, se lo leggerete, vi farà diventare più belli e più superbi che pria.
Bravo!
Grazie.
Petrolini a parte, la questione etimologica del termine “bravo” è complessa. Il significato che comunemente diamo a questa parola è “in gamba”, “abile”, ma anche “diligente a scuola”. In inglese brave significa “coraggioso”, in spagnolo bravo può voler dire sia “in gamba” che “arrabbiato” e in certe parti della Francia, nel sud per la precisione, brave vuol dire “buono” quasi nell’accezione di “tanto buono e tanto tonto”.

petrolini
Il Nerone di Petrolini (più bello e più superbo che pria)

Però, come Manzoni insegna, i bravi erano anche gli sgherri dei signorotti prepotenti e “de’ birboni”: non dimentichiamo che gli scagnozzi di cui si racconta ne “I promessi sposi” erano alle dipendenze di Don Rodrigo, il cui nome evidenzia la dominazione spagnola del nord Italia nel 1600. L’etimo di “bravo” passa dunque necessariamente per l’idioma castigliano, arrivandovi dal latino. Da pravus? O forse da barbarus (latinizzazione del greco βάρβαρος)? Il primo termine è chiaramente all’origine di parole  con connotazione negativa come “depravato”, e infatti significa “distorto, cattivo, malvagio”. Il secondo è un’onomatopea per indicare l’incapacità degli stranieri di articolare bene la lingua ellenica, per cui lo si usava per i forestieri in generale. Poi, con la caduta dell’impero romano d’occidente nel 476 d.C., divenne la parola che designava i rozzi e bellicosi popoli che avevano invaso l’Europa, quindi “selvaggio”.

bravi
“Questo matrimonio non s’ha da fare”

Il dizionario etimologico, non pago, ci ficca dentro anche una radice celtica (brau = “terrore”) e una possibile origine germanica con significato di “indomito, impetuoso, che abbatte gli ostacoli”. La cosa interessante è che, se fosse questa la vera origine di “bravo”, l’etimologia sarebbe comune a quella di un’altra parola molto simile, “brado” (libero, selvaggio, invincibile, come gli animali che sono “allo stato brado”).

Ma come è possibile che una parola dalle origini etimologiche così negative sia passata a significare caratteristiche positive e desiderabili? L’interessantissimo sito Una parola al giorno lo spiega favolosamente:

Non dobbiamo però scordare il cuore levantino in cui questa mediterranea parola ha ribollito per secoli, acuto nello scovare qualità positive nella canaglia.
Lo storto, fuori regola, è anche eccezionale, e così il selvaggio è indomito, valoroso, e non conosce paura. È vero, restano ancora in piedi i connotati più torbidi delle bravate, delle notti brave, dei bravi di Don Rodrigo, ma sono marginali: la radice di questa parola è esplosa nel mondo in un cristallino odore di apprezzamento, stima, nel vigore dell’abilità volta al bene. Così possiamo pensare al coraggioso inglese, il “brave”, e pensiamo all’universale “bravó” che rimbomba acclamante nei teatri più eleganti di tutto il globo.
Da noi è una parola normale, fondamentale – in virtù della sua storia, forse quasi identitaria, per la nostra cultura. Da piccoli facciamo i bravi a modo nostro e poi diventiamo bravi nel nostro lavoro, tornando a casa ci gustiamo una brava cena – splendido rafforzativo – e portiamo fuori il cane, dicendogli bravo quando ringhia alla vicina bisbetica. Il bravo resta ciò che spicca senza frastuoni, armoniosamente, al suo posto, in un modo anche originale, ormai ripulito dalle passate depravazioni – di cui è però rimasto lo smalto allegro e capace.

Una parola al giorno è un sito per amanti della linguistica e dell’etimologia. Potete iscrivervi e ricevere notifiche quotidiane su parole desuete e significati nascosti dei termini più comunemente usati. Io mi sono iscritta e trovo magnifico ricevere il buongiorno per mail con un approfondimento linguistico mai scontato né noioso.

braveheart
Un attivista pro-indipendenza della Scozia

Per quello che mi riguarda, sono riuscita ad educare il mio compagno a dirmi “brava” anziché “bravò!” quando vuole complimentarsi con me. Non solo: al nostro cane ora dice “bràvo”, con l’accento sulla a. Sono risultati di cui vado molto fiera. La contaminazione linguistica a casa nostra, però, è a doppio senso ed anche io, oramai, ho adottato espressioni così francesi che qualche volta devo andare a controllare il mio passaporto per essere sicura di essere ancora italiana. Succede a tutti gli espatriati o solo a me?

Pillola: Rigoletto mi ha fatta tribolare

L’opera verdiana “Rigoletto” è tratta dal dramma di Victor Hugo “Le roi s’amuse“, il cui protagonista si chiama Triboulet.

Verdi decise di cambiare il nome del buffone di corte da Triboletto, ovvero la versione italianizzata, preferendogli Rigoletto, derivato dal verbo francese “rigoler” che significa “scherzare, divertirsi, ridere”.

Triboulet, appellativo originario del buffone, deriva a sua volta dal verbo “tribouler“, che vuol dire “agiter, remuer, troubler, embrouiller”. Automatico è il legame che si fa con la parola trouble, sia nella lingua francese sia nella lingua inglese (che ha preso in prestito il termine proprio dal francese antico). L’origine di questo termine la si trova nel latino tribulare, cioètrebbiare il grano“. Il dizionario etimologico dice che il verbo è passato a significare “soffrire, patire, essere oppresso” quando Tertulliano nell’opera Adversus Iudaeos definì il giorno del giudizio “diem tribulationis“, inteso come il giorno in cui si coglierà il frutto di ciò che si è seminato.

A me invece pare più sensato affermare che tribulare sia passato dal significato di “mietere” a quello di “soffrire” perché mietere il grano con la falce era davvero una gran faticaccia, specie con il caldo del sole di giugno.

Buona festa della mietitura e della tribolazione.