Chaim Soutine: lo Chagall dell’ombra, il Modì dell’oscurità

L’école de Paris contava innumerevoli personalità e personaggi. Quegli anni magici e maledetti della capitale francese videro un coacervo di talenti e spiriti lucenti annidarsi per le sue strade brulicanti, chi con pennelli in mano, chi con penna e calamaio, chi con lo strumento musicale al seguito. Già, perché è impossibile scollegare il fervore pittorico di quell’epoca da quello scrittorio, musicale e registico-teatrale. Com’è possibile parlare di Picasso senza menzionare Cocteau e Apollinaire, Erik Satie e Kiki de Montparnasse?

Tra tutti, De amore gallico oggi porta il lettore a conoscere Chaim Soutine, uno di quelli meno noti, meno citati, uno di quelli che a scuola non viene quasi mai nominato.
Come Chagall, anch’egli veniva dai territori della Grande Madre Russia, anche se il villaggio in cui nacque oggi si trova in Bielorussia.
Il suo nome in cirillico si scrive  Хаим Соломонович Сутин e si legge Chaim Solomonovic Sutin. Il nome e il patronimico non lasciano dubbi in merito alle sue origini ebraiche né, immagino, alle sofferenze patite negli anni della sua giovinezza. 

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“Natura morta” di Soutine


Dotato di un talento innato per il disegno, Soutine ruppe il divieto di raffigurazione imposto dalla fede ebraica ortodossa e per questo fu punito con durezza. Un episodio in particolare segnò il suo cammino: a sedici anni fu punito dal figlio del macellaio del villaggio, che era stato ritratto da Soutine. L’artista fu rinchiuso nella cella di frollatura delle carni, dove i quarti di bue e altre carcasse animali pendevano come tetri addobbi dalle mura e dal soffitto del locale, e lì vi rimase per diverso tempo. La madre riuscì ad ottenergli un risarcimento; fu con quel denaro che il giovane e già introverso pittore partì per cercare fortuna altrove.

Soutine giunse a Parigi il 13 luglio del 1913; ad accoglierlo aveva dei colleghi e connazionali, tra cui Krémègne, coi quali mosse i primi passi nella capitale francese.
Di lì a poco conobbe persone che avrebbero significato molto per la sua vicenda personale ed artistica, primo tra tutti Amedeo Modigliani, anche lui ebreo, di cui ammirava estroversione, allegria, spigliatezza e non in ultimo arte. Con Chagall ebbe modo di trovare analogie non comuni: erano entrambi ebrei russi poverissimi, emigrati in Francia alla ricerca di fortuna. Chagall poi divenne una storta di superstar della pittura, richiesto ovunque nel mondo; Soutine, anche a causa delle sue ferite psicologiche legate ad un passato di violenza, povertà ed emarginazione che condizionavano non poco il suo comportamento sociale, non conobbe mai la fama di molti altri suoi colleghi, sebbene negli anni riuscì a raggiungere un discreto successo e stabilità economica.

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“Carcassa di bue”, di Soutine, 1925

I primi tempi parigini furono all’insegna della sporcizia e della scarsa igiene, tanto scarsa che un medico gli trovò nell’orecchio addirittura un nido di cimici. Era brusco e taciturno, non sapeva come avvicinare le donne, non aveva maniere capaci di attirarne. Frequentava prostitute nei bordelli di Montparnasse e di Montmartre: sceglieva le più brutte e le più segnate dal tempo e dalle malattie. Le ritraeva poi sulle sue tele, forse crogiolandosi in quella bruttezza e in quello squallore.
Detestava che le persone esprimessero opinioni sul suo lavoro e, se per caso udiva qualcuno criticare una sua opera, correva a stracciarla in pezzi, salvo poi ricucirla certosinamente per non sprecare materiale prezioso e, per lui, caro. Ridipingeva su quelle tele rattoppate, su delle croste acquistate per due soldi ai mercatini delle pulci, osservava affascinato il suo amico Modì bere sempre di più e scambiare le proprie opere per un goccio di vino. In breve tempo tutta Montparnasse possedeva almeno uno scarabocchio di Modigliani.

La sua salute era pessima: dolori allo stomaco lo accompagnavano costantemente. A posteriori è possibile individuare in quegli attacchi di mal di pancia l’ulcera che, a cinquant’anni, lo avrebbe ucciso. I ricordi della sua infanzia difficile lo attanagliavano e, sulla tela, deformavano la sua pittura, distorcendo segni e linee per produrre ritratti e nature morte tormentatissimi.

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“La donna pazza”, di Soutine, 1919


Modigliani morì nel 1920. Soutine aveva avuto in lui un amico fraterno e la scomparsa del pittore livornese si aggiunse alla serie di dispiaceri che costellavano la sua esistenza. Tuttavia, come spesso accade, la fortuna arrivò, postuma per Modì, tardiva per Soutine, nella persona del collezionista americano Albert C. Barnes. Le loro opere divennero improvvisamente richiestissime e arcinote e la buona sorte non lo abbandonò più fino allo scoppio della seconda guerra mondiale: la Germania invase la Francia e le leggi antisemite gli impedirono di continuare a soggiornare a Parigi. Fuggì e si diede alla macchia, vagando per tutta la Francia con la donna con cui si era accompagnato negli ultimi tempi, Marie-Berthe Aurenche, prima moglie di Ernst, tra l’altro.

La sua ulcera gastrica degenerò in un’emorragia; nulla poté l’operazione cui fu sottoposto a Parigi: il 9 agosto del 1943 Chaim Soutine spirò e fu seppellito al cimitero di Montparnasse.

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Chaim Soutine

L’opera di Soutine è morbosa: ricorrono come soggetti carcasse di animali (eco del suo trauma adolescenziale nel villaggio natio?), paesaggi lugubri, ritratti e autoritratti deformati. Risulta difficile inserire Soutine in una corrente artistica, tanto forte fu il suo individualismo e la sua identità pittorica. Espressionista? Fauve? Di certo Van Gogh, Velazquez e Courbet ebbero un ruolo fondamentale nella sua formazione stilistica, ma Soutine riuscì a costruirsi una cifra inconfondibile, fatta di dolore e amarezza, impastandoli sulla tela insieme coi colori. Modigliani lo influenzò notevolmente, questo è sicuro, ma se nei quadri del livornese c’è una sorta di gioiosa e calorosa celebrazione delle forme umane, esaltate ed esasperate dalla sofferenza causata dalla malattia fisica, in Soutine ci sono sporcizia, sangue, ricordi, traumi e dolori provocati dalla malattia dell’anima.

Per approfondire:
“La grande avventura dell’arte”, programma in onda su Rai 5.
“L’ultimo viaggio di Soutine” di Ralph Dutli
Settemuse

Neo-bizantino: da Marsiglia a Parigi.

La fine del secolo XIX e l’inizio del XX videro il fiorire di una moda architettonica che ha lasciato tracce imponenti, al suo passaggio, ovvero lo stile neo-bizantino, di cui si trovano esempi notevoli specialmente in quella parte di Europa che è tutt’ora tradizionalmente legata a “Bisanzio”, nell’immaginario comune (Bulgaria, Russia, Grecia etc.).
Anche la Francia (e con essa il Belgio e il Canada) seguì la voga del tempo e si concesse la bellezza di quattro chiese, qualche sinagoga e pure una parte del rinomato cimitero Père Lachaise.

Vorrei soffermarmi su due edifici in particolare, due chiese che ho avuto il piacere di visitare personalmente e che, nel mio sentire, collegano in modo ideale le due più vaste città francesi, Parigi e Marsiglia.
La prima, in ordine cronologico, è Notre-Dame-de-la-Garde, arrampicata su un cucuzzolo a cavallo tra due quartieri marsigliesi, Vauban e Roucas Blanc. Anche chiamata “La Bonne Mère”, è la chiesa dedicata al culto della Madonna protettrice dei marinai. E tante grazie, viene da dire: chi mai dovrebbe proteggere la Madonna a Marsiglia?

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Notre Dame de la Garde

La chiesa, di rito cattolico romano, fu progettata da un architetto protestante, Henri Espérandieu, nativo di Nimes. I lavori iniziarono nel 1853 e durarono più di vent’anni. L’ideatore del progetto morì prima che la sua opera fosse portata a compimento.
La prima cosa che colpisce è la sua imponenza esteriore: arroccata su una piattaforma alta tredici metri, reliquia di un antico fortino, domina Marsiglia tutta. Una volta entrati dentro la basilica, però, le dimensioni interne stupiscono per il contrasto: raccolta, intima, modesta, come se metri e metri cubi di volume fossero occupati esclusivamente dallo spessore delle mura.
In virtù dello stile architettonico così particolare, è legittimo pensare di essere entrati per errore in un luogo di culto ortodosso o armeno, salvo poi ricredersi, una volta resisi conto dell’enorme numero di ex voto presenti alle pareti della chiesa: per uomini tornati sani e salvi dalla guerra, per persone che hanno scampato il colera, per marinai ritornati da viaggi e da naufragi catastrofici… le date sono varie, gli stili di ex voto anche. Si va dalle placche di metallo o d’argento alle iscrizioni su marmo e ai quadri e ritratti dipinti a olio. L’oro la fa da padrone, nelle decorazioni, anche se, inesplicabilmente, l’effetto che ne risulta è molto meno impressionante di quello che si ha visitando monumenti il cui stile è bizantino tout court, vale a dire il mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna, o Sant’Apollinare Nuovo e in Classe, della medesima città.
Ad ogni modo, essendo come sempre alla ricerca dell’ironico e del paradossale, mi preme parlare di ciò che accadde alla fine della seconda guerra mondiale, durante la liberazione, di cui le mura della basilica portano ancora i segni: non son sicura se siano “cicatrici” da bombardamento, da cannonate o da altro tipo di artiglieria, ma di certo fu opera dei tedeschi.
Comunque, il 15 agosto del 1944 gli alleati sbarcarono in Provenza. Marsiglia fu liberata con una battaglia che durò diverse giornate: dal 20 agosto al 28. Non è questo il luogo per una cronaca approfondita della manovra (per un diario dettagliato potete cliccare qui e qui), mi limito a riferire che la collina e la basilica furono liberate dal giogo tedesco per mano di soldati algerini (musulmani) facenti parte dell’ Armée d’Afrique.

Notre Dame de la Garde: una basilica cattolica, dalle sembianze ortodosse, progettata da un protestante, salvata dai musulmani.
Come è ironica la Storia.

Il secondo edificio su cui desidero soffermarmi è, insieme al Vittoriano di Roma, come riporta giustamente l’onnisciente Wikipedia, una delle costruzioni più bianche d’Europa: la pietra di Château-Landon (Seine-et-Marne), di cui è costituito, è un tipo di travertino che rigetta la polvere e l’inquinamento, restando sempre bianco, malgrado il passare del tempo e delle intemperie. Sto parlando della basilica del Sacré-Coeur di Parigi, che, eretta in un punto alto come la sua “cugina” marsigliese, domina la ville lumière dalla collina di Montmartre dal 1873, anno di inizio della sua costruzione, apparentemente voluta dall’Assemblea Nazionale per “espiare i peccati commessi dai Comunardi” (per un breve ripasso dell’avventura della Comune di Parigi cliccate qui).
Tuttavia non avvenne questo, in quanto è stato provato che la decisione di costruire una basilica sulla sacra collina di Montmartre (“Monte dei martiri”, forse a causa della disavventura di San Dionigi, decapitato proprio lì sopra) da parte dell’Assemblea fu anteriore all’avventura della Comune di Parigi. Qui trovate la fonte della mia affermazione.

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Le Sacré-Coeur

La sua stazza è colossale: la pianta della basilica è a croce greca, con un catino absidale decorato da un gigantesco mosaico dominato dall’oro e dal blu. Anche in questo caso l’architetto, Paul Abadie, vincitore della gara di appalto, morì prima di vedere la sua creatura completa. Il Sacro Cuore, infatti, fu conclusa solo nel 1914, ma la chiesa fu consacrata solo nel 1919, alla fine della prima guerra mondiale.
La prima volta che la vidi, duramente provata da una giornata trascorsa a zonzo per Parigi, non ebbi le energie sufficienti da dedicare al suo interno, per cui mi limitai ad una toccata e fuga da turista che mi fece quasi vergognare.
La seconda volta mi rifeci ampiamente, arrivando anche a seguire una funzione religiosa in lingua filippina che si stava celebrando in quel momento, sia per poter osservare con calma l’interno della basilica, sia per poter riposare i piedi, sia per ascoltare quell’idioma a me sconosciuto e dai suoni alquanto bizzarri.

C’è sempre magia, un’atmosfera spessa e vischiosa, in questi luoghi così ricchi di Storia e di storie. A Notre Dame de la Garde l’aria sa di anice e di salsedine, è ruvida e arrabbiata, un po’ come un marinaio marsigliese appena sceso giù al porto. Al Sacré-Coeur, invece, essa lascia in gola un sentore di pioggia e di zucchero, dolce e un po’ stucchevole, come la Parigi delle cartoline, come la Parigi che ci immaginiamo e che, per fortuna, non troviamo.