Marthe Richard, prostituta, aviatrice, spia, politica o impostora?

Oggi andiamo a conoscere un personaggio che ha attraversato il secolo scorso sotto le più svariate vesti: si tratta di Marthe Richard, conosciuta come prostituta, aviatrice, spia e la politica che ha fatto chiudere le case chiuse di tutta la Francia.

Marthe Betenfeld nacque nel 1889 a Blâmont da una famiglia operaia di condizioni modeste in cui il flagello dell’alcolismo si era abbattuto sul padre. Dopo esser stata presso un istituto cattolico, a quattordici anni divenne apprendista culottière nella città di Nancy, ma ben presto fu nota alle forze dell’ordine per adescamento. Riportata prontamente presso la casa dei genitori, poco dopo fuggì per tornare a Nancy, dove si innamorò di un italiano che affermava di essere un artista. In realtà questo individuo altri non era che un lenone, il quale dapprima la mise su di un marciapiede, poi in un bordello chiamato maison d’abattage. Questa espressione francese non indica un lupanare qualunque: le maisons d’abattage erano luoghi in cui alle prostitute veniva richiesto di avere anche cinquanta clienti al giorno. La marchetta era pagata all’incirca 3 franchi, l’equivalente di 10 euro dei giorni nostri.

Questo solo per dare un’idea della realtà di alcune donne in quell’epoca.

Dai sedici ai diciotto anni Marthe visse in queste condizioni, fino a che non accadde qualcosa di molto comune, purtroppo: contrasse la sifilide. Sembra che abbia poi rifilato la malattia ad un soldato, il quale la denunciò alla polizia. I gendarmi la schedarono come prostituta, fu espulsa dal bordello in cui aveva lavorato fino ad allora e, senza sapere dove andare o che fare, la giovane decise di tentare la sorte a Parigi.

Lì si fece assumere in un lupanare di livello più alto rispetto a quello in cui aveva lavorato a Nancy. Non sono riuscita a reperire informazioni riguardo il suo stato di salute negli anni successivi, ma a giudicare dalla vita straordinaria che ha condotto e dalla sua longevità (morì a 92 anni), la sifilide non deve essere stata un grande problema per lei, o forse riuscì a farsi curare.

La giovane e bella Marthe

A Parigi, nel settembre del 1907, Marthe incontrò il suo primo marito, l’industriale Henri Richer. Il cognome col quale sarà nota ai posteri, Richard, non è altro che una storpiatura di Richer. Il matrimonio le permise di rinnovarsi e di risorgere: non più povera e volgare prostituta, ma donna sposata appartenente alla buona borghesia. Grazie a quest’unione, Marthe scoprì una disciplina che divenne sua passione e nella quale poté fregiarsi del titolo di pioniera: l’aviazione.

Il marito, infatti, le regalò un aeroplano, per il quale lei ottenne il brevetto di pilota (fu la sesta donna in Francia ad averlo) e col quale gareggiò, divenne membro di aeroclub e partecipò a meeting importanti. La stampa, che la seguiva avidamente in questi suoi exploits, la soprannominò ‘l’allodola’, apprezzandone il coraggio, la bellezza e l’audacia. Ma un giorno, il 31 agosto 1913, l’allodola commise un errore tremendo: atterrò su di un terreno non adatto e si ferì gravemente, così gravemente da cadere in coma per quasi un mese. La carriera d’aviatrice, però, non finì. Ripresasi, fu protagonista di un’impresa un po’ fraudolenta: un enorme bluff col quale però ottenne il record per il volo più lungo condotto da una donna (in realtà si fece aiutare da un altro pilota per spostare l’aereo, che aveva avuto dei problemi, via treno).

L’aviatrice

I venti di guerra soffiavano sull’Europa: Marthe sperava che la Francia avesse bisogno delle sue aviatrici. Così non fu e il mancato richiamo al fronte fu per lei un vero scacco. Il marito, però, fu inviato in battaglia, dove trovò la morte nel 1916. Vedova, non si diede per vinta e grazie al suo amante si fece arruolare dai servizi segreti francesi, per i quali collaborò anche con la famosa Mata Hari a Madrid. Un incidente d’auto, tuttavia, svelò il suo ruolo nell’intelligence: fu subito richiamata in patria ed esclusa da ogni ulteriore manovra di spionaggio. Finita la guerra, conobbe un inglese, un ricco banchiere, tale Thomas Crompton. Nel 1926 i due convolarono a nozze, ma il destino richiamava ancora una volta il coniuge dall’altra parte del velo: nel 1928 Marthe rimase per la seconda volta vedova.

L’eredità lasciatale dal marito fu grande e le permise uno stile di vita molto agiato negli anni successivi. Alcuni hanno messo in dubbio la veridicità della sua attività spionistica. Perfino l’onorificenza conferitale, la Legion d’Onore, sembra essere stata una sorta di ‘contentino’, più per riconoscenza verso il supporto finanziario dato alla Francia dalla banca del marito che per i meriti veri di Marthe.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, ella, sconosciuta all’intelligence tedesca, entrò nelle Forces françaises de l’intérieur e militò nella Resistenza, malgrado qualche legame poco chiaro con un marsigliese collaborazionista che ha gettato non poche ombre sulla sua carriera. La militanza di Marthe durante la seconda guerra mondiale fu senza dubbio il trampolino di lancio per la sua carriera politica: nel 1945 fu eletta consigliera del 4 arrondissement parigino. Grazie alla sua opera di sensibilizzazione condotta per mezzo stampa e ad un suo discorso tenuto il 13 dicembre dello stesso anno, Marthe Richard riuscì a far approvare, nel 1946, una legge che chiuse definitivamente i bordelli in Francia. La sua proposta non condannava le prostitute, ma la società intera, che avallava comportamenti debosciati e spingeva le giovani alla vita di strada.

La sua esistenza continuò fino alla veneranda età di 92 anni sulla falsa riga di ciò che era stata fino ad allora: scrisse mémoirs e libri sulla sua vita di spia, diede conferenze, fondò premi letterari per romanzi erotici e in generale menò una vita piacevole e nell’agio, grazie soprattutto alla rendita garantitale dal secondo marito.

Una nota a proposito di questo matrimonio: l’unione con un cittadino inglese, al tempo, significava la perdita della cittadinanza francese. C’è dunque chi ha avanzato l’ipotesi che Marthe Richard abbia condotto una carriera politica in territorio francese senza averne più i diritti, ma la questione è stata poi liquidata senza sequele.

Più aspre furono le critiche che gettarono ombre sulla sua carriera di spia durante le due guerre, accusandola di essere nient’altro che un’impostora, una raccontafavole approfittatrice.

Marthe da anziana

In merito a questo noi non possiamo sapere la verità. Essa sarà stabilita solo quando gli storici avranno condotto a termine il loro lavoro di indagine sulla vita rocambolesca di questa donna. Per me, intanto, va ricordata come una personalità poliedrica e multiforme, che è stata capace di reinventarsi e di fare anche cose importanti per il proprio paese, forse non con le sue doti di spia, ma con la legge che tuttora porta il suo nome.

Ecco a voi un ritratto succinto ma denso di Marthe Richard, le cui ceneri si trovano oggi al Père Lachaise sotto il nome di Marthe Crompton, come vuole lo stile francese secondo cui le donne prendono il nome del loro marito.

Mulhouse e Strasbourg: viaggio notturno sentimentale in un pezzo di Francia che è già Germania (o forse no).

Ho attraversato l’Alsazia in una fredda sera di metà novembre, direzione Treviri.
Le due brevi tappe che mi sono concessa sono state a Mulhouse e a Strasbourg. Nulla di che, nemmeno il tempo di sgranchirmi le gambe, figuriamoci andare a dare un’occhiata a qualche via o monumento.
Però è bastato quel poco per percepire il senso di transizione che ispira quel pezzo di terra.
L’Alsazia (e la Lorena) è salita agli onori della cronaca nel programma scolastico di storia più e più volte: una disputa secolare per il dominio della regione tra Francia e Germania.
E se si mette il naso fuori dal finestrino della macchina si capisce il perché: si è in Francia, a tutti gli effetti. Basta contare il numero di boulangeries che, seducenti, ammiccano nella gelida aria notturna novembrina. Ma i nomi dei luoghi e delle località rimandano ad un passato tormentato, ad un’identità assai più teutonica che gallica. Il nome stesso della regione deriva dall’alto tedesco antico Ali-saz or Elisaz, che significa “dominio straniero”.

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Mulhouse

Una breve cronologia del palleggio tra Francia e Germania potrebbe dare un’idea della precarietà storica di questa terra e di come è assurta a simbolo della rivalità franco-asburgica:
già assegnata a Lotario alla morte di Carlo Magno (814), l’Alsazia-Lorena fu parte del Sacro Romano Impero, se si vogliono considerare l’Impero Carolingio ed il Sacro Romano Impero due entità separate. Alcuni storici sono contrari a questa lettura, preferendo individuare nei due regni un unicum senza soluzione di continuità. Prendendo per buona però la prima versione e ponendo l’inizio del S.R.I. nel 962, quando fu eletto imperatore Ottone I (nota bene: la particolarità del S.R.I. era proprio la carica elettiva del sovrano, che rispecchiava in un certo qual modo la tradizione tribale barbarica del primus inter pares), si può dire che l’Alsazia-Lorena passò dall’Impero Carolingio al Sacro Romano Impero mantenendo un’identità più prettamente teutonica.
 Durante la catastrofica guerra dei trent’anni, essa non venne risparmiata e finì per diventare un pezzo del complesso puzzle geopolitico risultante di quel guazzabuglio europeo. Col passare dei secoli le due regioni furono assegnate al Regno di Francia, precisamente sotto Luigi XIV le roi soleil, per ritornare alla Germania durante il conflitto franco-prussiano nel 1870. Alla fine della prima guerra mondiale l’Alsazia-Lorena fu riammessa alla Francia, fu re-invasa dalla Germania durante l’offensiva bellica del secondo conflitto mondiale, alla fine del quale il territorio conteso rientrò nei confini francesi dove è tutt’oggi.

Niente male per una provincia qualunque dell’Europa centrale.

C’è da immaginare un bel clima di tensione nel periodo delle due guerre mondiali: spionaggio, fraternizzazione col nemico, doppio gioco e nazionalismo da ambo le parti. A questo proposito consiglio la visione di un film meraviglioso uscito quest’anno nelle sale: “Frantz“, produzione franco-tedesca, diretto da François Ozon, girato quasi interamente in bianco e nero, un film struggente sull’elaborazione del lutto e sullo stress post-traumatico sofferto dai poveri soldati reduci della Grande Guerra.

Mantenendo tutto questo a mente, il canto notturno di una donna errante d’Europa si trasforma in una sequela di toponomi di villaggi e cittadine, masticati fingendo un accento tedesco che non ho (perché non conosco il tedesco) e sputati arrotando la erre alla francese.
La tappa a Mulhouse si trasforma in un sogguardare in giro, timidamente, sapendo che è la città natale di un personaggio tanto ammirato, Philippe Daverio, e di un tale Alfred Dreyfus, il cui affaire, se proprio si vuole fare il gioco della causa-effetto, è il casus belli del conflitto israelo-palestinese. Sì, perché se Dreyfus non fosse stato accusato ingiustamente, Zola non avrebbe mai scritto il “J’accuse“, in Europa non si sarebbe espansa l’ondata di antisemitismo che spinse Theodor Herzl a scrivere “Der Judenstaat” e forse tutto sarebbe stato diverso.

Colmar, Strasbourg… l’Alsazia sfila nel buio della notte autunnale, l’automobile fa le acrobazie sul confine tra due stati, come un equilibrista, un circense ubriaco. Ho fame, ma c’è tanta strada da percorrere, ancora, non si può indugiare.
Ci si tuffa nella foresta tedesca, francophonie alle spalle, boulangeries dietro di noi, davanti Treviri e Karl Marx, le pale eoliche che nel buio lampeggiano rubizze, come tanti UFO venuti a prelevarci per riprogrammarci. La carreggiata è dritta, in discesa e in salita, in mezzo ad un bosco immenso, dagli alberi glabri e lugubri. La luna è piena, ma celata da una coltre di nubi che attutisce ogni pensiero.
Il buio appanna i sensi, non li acuisce. Il freddo penetra nelle ossa, si è disorientati dalla mancanza di civiltà: la città è ancora lontana, l’ora di arrivo è posposta, il cuore è affannato.

Una delle persone più care mi ha lasciato, e io lo vengo a sapere in viaggio, di notte, lungo una strada infinita attraverso una selva oscura tra Francia e Germania.

Intervista: le jour du débarquement, la storia nei ricordi di chi l’ha vissuta.

Intervista del 16 gennaio 2015 alla signora Roseline Martin, vedova ottantaseienne di La Croix Valmer, uno dei paesini della costa sud della Francia che furono teatro dell’Operazione Dragoon nell’agosto del 1944.

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Domanda: Lei ricorda tutto?
Risposta: Certo, avevo quindici anni.
D: Potrebbe raccontarmi, per prima cosa, quale clima ha respirato nel periodo dell’occupazione straniera, prima che avvenisse lo sbarco degli alleati?
R: In verità noi di queste parti non abbiamo vissuto momenti particolarmente drammatici. Sì, eravamo occupati, prima dagli italiani, poi dai tedeschi, era la guerra, ed è sempre orribile, ma cercavamo di continuare a vivere normalmente, a scapito della paura e della morte. Le famiglie di emigrati italiani erano quasi contente dell’occupazione, specialmente all’inizio, quando delle batterie fasciste si erano acquartierate da queste parti. Speravano in qualche beneficio, in assegnazioni di terre e di beni. Mio padre non li poteva sopportare, anche a guerra finita: non faceva che ripetermi di non portargli mai in casa un italiano come genero, un Rital!
D: Rammenta qualche episodio in particolare riguardo le truppe italiane?
R: Sì, un fatto che spaventò molto la mia famiglia per le conseguenze che avrebbe potuto avere. Avevamo un cavallo, alla fattoria là a Collebasse, era vecchio e malato. Il veterinario di Saint Tropez che avevamo mandato a chiamare apposta disse che andava abbattuto. Gli praticò un’iniezione per sopprimerlo e noi di casa lo seppellimmo da qualche parte nei nostri terreni. Fatto sta che, a causa della mancanza di viveri, i soldati della guarnigione italiana lo trovarono, lo disseppellirono e ne presero diverse parti per cucinarlo e mangiarlo. Mia madre, non sapendo se fosse possibile mangiarlo a causa dell’iniezione del veterinario, andò in bicicletta fino a Saint Tropez per chiedere al dottore se doveva avvisare gli italiani. Il dottore, spaventato, disse che era pericolosissimo cibarsi di quella carne. Così la mamma pedalò più veloce che poté, ritornò qui e corse al quartier generale per avvisare di non mangiare in alcun modo la carne del’animale. Dio solo sa che cosa sarebbe potuto succedere se i soldati avessero consumato il cavallo! Tutta la famiglia ci sarebbe andata di mezzo!

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D: Sentì mai notizie di famiglie ebree della zona, magari, che durante il Governo di Vichy e la successiva occupazione tedesca furono deportate?
R: No. Giravano invece diverse voci su giovani che si univano alla resistenza partigiana. Era tutto molto segreto, non si doveva parlarne in alcun modo, ma le notizie circolavano, sebbene su a Collebasse fossimo isolati. Anche mio cugino, nel suo piccolo, compiva azioni di resistenza. Ad esempio tagliò i fili del telefono della caserma dei soldati. Al tempo ci sembravano delle ragazzate, visto che lui era adolescente, ma ripensandoci erano veri e propri atti di ostruzione e resistenza.
D: Passiamo al giorno dello sbarco. Avevate il sentore di ciò che stava per succedere?
R: Sì, sapevamo, vedevamo che gli americani venivano a bombardare. Dai tedeschi avevamo percepito che nell’aria c’era qualcosa. Dopotutto era successo da poco in Normandia (6 giugno 1944 n.d.a.), era previsto che gli alleati arrivassero a salvarci. Furono i primi a sbarcare, gli americani. I francesi aspettarono sulle navi. Erano i soldati americani a fare l’avanguardia. Erano la “truppa di shock”, non avevano paura di nulla, ma loro di paura ne facevano eccome!
D: Ho sentito francesi nativi della Normandia esternare astio nei confronti degli americani i quali, seppur venuti per liberarli dai nazisti, non hanno mancato di farsi una cattiva fama, violentando le donne locali e rubando ai contadini. Questi fatti sono avvenuti anche qui in Provenza?
R: Beh, con gli americani no, sebbene, come ho già detto, le truppe d’assalto facessero molta paura. Penso fossero composte di soldati bruti, il cui aspetto stesso spaventava. Ma le violenze sessuali sono accadute quando c’erano i tedeschi. Avevano integrato nell’esercito d’occupazione gente della bassa Russia… non so… qualcosa di simile. Invece di tenerli come prigionieri li avevano impiegati come soldati della loro armata. Beh, quelli sì che erano dei selvaggi, hanno stuprato e fatto cose orrende. Quelli sì. Pure i nazisti ci facevano paura, specialmente perché mia madre, che era belga e aveva vissuto l’invasione del Belgio nella prima guerra mondiale, ci raccontava sempre delle nefandezze fatte dai soldati tedeschi nei confronti della popolazione civile.cogolin.jpg
D: Il giorno dello sbarco vero e proprio che cosa è successo?
R: Il ricordo più vivido che ne ho è l’odore della polvere sollevata dalla bagarre, acre, penetrante. E la visione della luce causata dalle esplosioni, come dei fuochi d’artificio alla rovescia. La notte tra il 14 e il 15 agosto ero a casa con la mia famiglia e sentimmo dei rumori fortissimi. Capimmo che era arrivato il momento che stavamo aspettando da tempo. Dovevamo nasconderci e metterci al sicuro. A questo scopo mio padre aveva scavato una trincea, in giardino, ricoperta da una spessa lamiera. Corremmo a ripararci là sotto, tutta la famiglia salvo mio cugino Walter, belga come mia madre, che era rimasto con noi perché lo scoppio della guerra lo aveva bloccato in Francia; lui andò a nascondersi sotto un cumulo di aghi di pino che serviva da lettiera per i cavalli. In breve tutta la vallata fu bombardata dagli alleati che venivano a liberarci e che cercavano di stanare i nazisti nascosti nel bunker di Villa Nenno. Penso che gli americani cercassero anche di far brillare le mine messe in tutti i campi e in tutte le vigne dai tedeschi. Ricordo che c’era una gran nebbia, artificiale, presumo, emanata dagli alleati durante lo sbarco per un maggiore effetto sorpresa. Nostro padre non faceva che ripetere: “Passerà tutto! Passerà tutto!” ma non eravamo affatto rassicurati dalle sue parole. Alla fine di quella nottata interminabile i colpi cessarono e fummo capaci di tornare in casa. Verso mezzogiorno un gruppo di soldati tedeschi arrivarono a casa nostra, le mani in alto, ripetendo: “Moi, pas kaput!“. Quasi allo stesso momento, un contingente americano fece arrivo e i tedeschi si arresero seduta stante, consegnando le loro armi. Successivamente mio fratello Jean accompagnò gli alleati per indicare loro i sentieri che dovevano condurli fino a Saint Tropez e a Ramatuelle. Prima di partire, però, vennero da noi a portarci scatole di conserva, caffè solubile e uova in polvere, che qui non erano ancora diffuse. Non parlando inglese, ci spiegarono di che si trattava indicando la scatola e facendo il verso della gallina. C’erano anche dei soldati neri, alti, e dei marocchini. Uno di essi mi fece un regalo: una piccola teiera azzurra che ho conservato per molto tempo. Sono stati dei begli incontri, erano persone gentili e sorridenti e ci hanno portato la libertà e la pace. Il 15 agosto per me è un miscuglio di emozioni fortissime che si uniscono al ricordo della mia famiglia e al sapore della paura degli anni di guerra e della libertà portata dai soldati che venivano da oltre l’oceano.

De amore gallico con Roseline Martin.