Marthe Richard, prostituta, aviatrice, spia, politica o impostora?

Oggi andiamo a conoscere un personaggio che ha attraversato il secolo scorso sotto le più svariate vesti: si tratta di Marthe Richard, conosciuta come prostituta, aviatrice, spia e la politica che ha fatto chiudere le case chiuse di tutta la Francia.

Marthe Betenfeld nacque nel 1889 a Blâmont da una famiglia operaia di condizioni modeste in cui il flagello dell’alcolismo si era abbattuto sul padre. Dopo esser stata presso un istituto cattolico, a quattordici anni divenne apprendista culottière nella città di Nancy, ma ben presto fu nota alle forze dell’ordine per adescamento. Riportata prontamente presso la casa dei genitori, poco dopo fuggì per tornare a Nancy, dove si innamorò di un italiano che affermava di essere un artista. In realtà questo individuo altri non era che un lenone, il quale dapprima la mise su di un marciapiede, poi in un bordello chiamato maison d’abattage. Questa espressione francese non indica un lupanare qualunque: le maisons d’abattage erano luoghi in cui alle prostitute veniva richiesto di avere anche cinquanta clienti al giorno. La marchetta era pagata all’incirca 3 franchi, l’equivalente di 10 euro dei giorni nostri.

Questo solo per dare un’idea della realtà di alcune donne in quell’epoca.

Dai sedici ai diciotto anni Marthe visse in queste condizioni, fino a che non accadde qualcosa di molto comune, purtroppo: contrasse la sifilide. Sembra che abbia poi rifilato la malattia ad un soldato, il quale la denunciò alla polizia. I gendarmi la schedarono come prostituta, fu espulsa dal bordello in cui aveva lavorato fino ad allora e, senza sapere dove andare o che fare, la giovane decise di tentare la sorte a Parigi.

Lì si fece assumere in un lupanare di livello più alto rispetto a quello in cui aveva lavorato a Nancy. Non sono riuscita a reperire informazioni riguardo il suo stato di salute negli anni successivi, ma a giudicare dalla vita straordinaria che ha condotto e dalla sua longevità (morì a 92 anni), la sifilide non deve essere stata un grande problema per lei, o forse riuscì a farsi curare.

La giovane e bella Marthe

A Parigi, nel settembre del 1907, Marthe incontrò il suo primo marito, l’industriale Henri Richer. Il cognome col quale sarà nota ai posteri, Richard, non è altro che una storpiatura di Richer. Il matrimonio le permise di rinnovarsi e di risorgere: non più povera e volgare prostituta, ma donna sposata appartenente alla buona borghesia. Grazie a quest’unione, Marthe scoprì una disciplina che divenne sua passione e nella quale poté fregiarsi del titolo di pioniera: l’aviazione.

Il marito, infatti, le regalò un aeroplano, per il quale lei ottenne il brevetto di pilota (fu la sesta donna in Francia ad averlo) e col quale gareggiò, divenne membro di aeroclub e partecipò a meeting importanti. La stampa, che la seguiva avidamente in questi suoi exploits, la soprannominò ‘l’allodola’, apprezzandone il coraggio, la bellezza e l’audacia. Ma un giorno, il 31 agosto 1913, l’allodola commise un errore tremendo: atterrò su di un terreno non adatto e si ferì gravemente, così gravemente da cadere in coma per quasi un mese. La carriera d’aviatrice, però, non finì. Ripresasi, fu protagonista di un’impresa un po’ fraudolenta: un enorme bluff col quale però ottenne il record per il volo più lungo condotto da una donna (in realtà si fece aiutare da un altro pilota per spostare l’aereo, che aveva avuto dei problemi, via treno).

L’aviatrice

I venti di guerra soffiavano sull’Europa: Marthe sperava che la Francia avesse bisogno delle sue aviatrici. Così non fu e il mancato richiamo al fronte fu per lei un vero scacco. Il marito, però, fu inviato in battaglia, dove trovò la morte nel 1916. Vedova, non si diede per vinta e grazie al suo amante si fece arruolare dai servizi segreti francesi, per i quali collaborò anche con la famosa Mata Hari a Madrid. Un incidente d’auto, tuttavia, svelò il suo ruolo nell’intelligence: fu subito richiamata in patria ed esclusa da ogni ulteriore manovra di spionaggio. Finita la guerra, conobbe un inglese, un ricco banchiere, tale Thomas Crompton. Nel 1926 i due convolarono a nozze, ma il destino richiamava ancora una volta il coniuge dall’altra parte del velo: nel 1928 Marthe rimase per la seconda volta vedova.

L’eredità lasciatale dal marito fu grande e le permise uno stile di vita molto agiato negli anni successivi. Alcuni hanno messo in dubbio la veridicità della sua attività spionistica. Perfino l’onorificenza conferitale, la Legion d’Onore, sembra essere stata una sorta di ‘contentino’, più per riconoscenza verso il supporto finanziario dato alla Francia dalla banca del marito che per i meriti veri di Marthe.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, ella, sconosciuta all’intelligence tedesca, entrò nelle Forces françaises de l’intérieur e militò nella Resistenza, malgrado qualche legame poco chiaro con un marsigliese collaborazionista che ha gettato non poche ombre sulla sua carriera. La militanza di Marthe durante la seconda guerra mondiale fu senza dubbio il trampolino di lancio per la sua carriera politica: nel 1945 fu eletta consigliera del 4 arrondissement parigino. Grazie alla sua opera di sensibilizzazione condotta per mezzo stampa e ad un suo discorso tenuto il 13 dicembre dello stesso anno, Marthe Richard riuscì a far approvare, nel 1946, una legge che chiuse definitivamente i bordelli in Francia. La sua proposta non condannava le prostitute, ma la società intera, che avallava comportamenti debosciati e spingeva le giovani alla vita di strada.

La sua esistenza continuò fino alla veneranda età di 92 anni sulla falsa riga di ciò che era stata fino ad allora: scrisse mémoirs e libri sulla sua vita di spia, diede conferenze, fondò premi letterari per romanzi erotici e in generale menò una vita piacevole e nell’agio, grazie soprattutto alla rendita garantitale dal secondo marito.

Una nota a proposito di questo matrimonio: l’unione con un cittadino inglese, al tempo, significava la perdita della cittadinanza francese. C’è dunque chi ha avanzato l’ipotesi che Marthe Richard abbia condotto una carriera politica in territorio francese senza averne più i diritti, ma la questione è stata poi liquidata senza sequele.

Più aspre furono le critiche che gettarono ombre sulla sua carriera di spia durante le due guerre, accusandola di essere nient’altro che un’impostora, una raccontafavole approfittatrice.

Marthe da anziana

In merito a questo noi non possiamo sapere la verità. Essa sarà stabilita solo quando gli storici avranno condotto a termine il loro lavoro di indagine sulla vita rocambolesca di questa donna. Per me, intanto, va ricordata come una personalità poliedrica e multiforme, che è stata capace di reinventarsi e di fare anche cose importanti per il proprio paese, forse non con le sue doti di spia, ma con la legge che tuttora porta il suo nome.

Ecco a voi un ritratto succinto ma denso di Marthe Richard, le cui ceneri si trovano oggi al Père Lachaise sotto il nome di Marthe Crompton, come vuole lo stile francese secondo cui le donne prendono il nome del loro marito.

Un tour cimiteriale nel Golfo di St. Tropez

Dato che il confinement permette di andare a far visita ai cimiteri e che perciò mi lascia libera di dedicarmi ad una delle mie grandi passioni, ho approfittato per visitare un po’ di camposanti della zona in cui non ero ancora stata e scattare delle foto a tombe antiche, interessanti, misteriose.

Ho il piacere, dunque, di condividerle con i lettori di De amore gallico. Spero che questa galleria di immagini delle mie flâneries cimiteriali vi faccia viaggiare…

In queste due foto, scattate al cimitero di Ramatuelle, si notano le tipiche corone floreali di ceramica, una tradizione tutta francese.

Ogni cimitero che si rispetti ha il suo guardiano a quattro zampe. Anche quello di Ramatuelle.

Il tempo che passa si fa vedere al cimitero di Gassin.

Simboli che parlano del mestiere della famiglia sepolta sotto questo monumento, cimitero di Gassin.

Cognomi particolari, tombe ‘scadute’, tombe di bambini… al cimitero di Gassin ho trovato davvero tante cose interessanti.

Perfino un micio che assomiglia al disegno di Simba fatto da Rafiki ne ‘Il re leone’.

Una fine commovente…

A Grimaud c’è un mulino che domina il paesaggio dietro il cimitero. Tombe senza nome ma ricoperte di vegetazione lussureggiante, sepolcri nascosti nell’angolo più lontano e discreto…

Sepolcri di notevole solennità…

Il guardiano del cimitero di Cogolin è stato disturbato da una paparazza cimiteriale…

Un’interessante discrepanza ortografica che fa domandare… ma c’entra niente il poeta Arthur Rimbaud col villaggio di Cogolin?

Statue che sembrano viventi, epigrafi cancellate di proposito (quale mistero!) come per attuare una damnatio memoriae, sepolcri abbandonati da tempo a Cogolin.

Per concludere con una tomba solenne di un’illustre famiglia di medici e sindaci.

A presto, sempre su De amore gallico, con podcast, articoli, foto e storie interessanti.

Le Télémaque: il mistero del tesoro di Luigi XVI

Che cosa trasportava il brigantino Télémaque il 3 gennaio del 1790? Quali segreti erano custoditi nella sua stiva? Un mistero che ha intrigato storici, scrittori e cercatori d’oro degli ultimi duecento anni…

Struttura di un brigantino, un’imbarcazione a due alberi molto veloce

Il Télémaque, al momento del naufragio, non si chiamava più così. Il brigantino era infatti stato acquistato al rouennese Louis Durand da Jean-Vincent Le Canu, commerciante di rue des Charrettes, e dai suoi soci, il Capitano Quemin e altri. Le Canu aveva ribattezzato il Télémaque: la scelta del nuovo nome era caduta su Le Quintanadoine, in onore di una ‘famosa famiglia di armatori di Rouen’. Si sa, cambiare il nome ad una barca porta molta sfortuna! Poco importa come sia stato rinominato, questo bateau è comunque passato alla storia come Télémaque.

Il ruolo di bordo del Télémaque

Era stato anche riparato e ingrandito: dopo i lavori di ristrutturazione il brigantino misurava 26 metri di lunghezza per 7,33 di larghezza e 4,33 di altezza. Va sottolineato che il Capitano Quemin e tutto l’equipaggio che salì a bordo del Quintanadoine per la missione che finì in naufragio erano gli stessi che aveva lavorato su quelbrigantino quando si chiamava Télémaque. Squadra che vince non si cambia!

Il 24 Dicembre 1789 il Quintanadoine ricevette il lasciapassare dall’ammiragliato di Rouen e salpò alla volta di Brest per trasportare legname e carbone, ufficialmente…
Il brigantino solcava le placide acque della Senna, destreggiandosi tra le anse del fiume, arrivando il 2 gennaio 1790 a Quillebeuf-sur-Seine. L’equipaggio mise l’ex Télémaque au mouillage a circa 100 metri di distanza dalla riva della città. Ed ecco che accadde il fatto che diede vita al mistero.

Le cronache narrano che un frangente, cioè un’onda particolarmente violenta e anomala, si sia riversata sul brigantino, lo abbia schiantato da babordo verso tribordo, gli abbia fatto perdere gran parte del carico e abbia rotto tutte le cime e tutte le gomene che assicuravano l’imbarcazione.

Quemin fece immediatamente mettere in acqua le scialuppe di salvataggio e tutta la ciurma fortunatamente si salvò, fatta eccezione per il mozzo, poveretto. Infatti il Télémaque colò a picco, portando con sé il giovane apprendista marinaio di cui non è più stato trovato il corpo e, pare, tutto il carico che trasportava in quella missione. Il Capitano avrebbe dovuto immediatamente riportare l’incidente alle autorità competenti, ma sembra che l’ammiragliato di Quillebeuf non abbia ricevuto notifica del naufragio che tre giorni dopo, il 5 gennaio 1790. La cosa strana è che negli archivi non risulta nulla e che l’impiegato addetto alla registrazione dei documenti, intervistato in seguito, disse di non aver alcun ricordo riguardante il dossier del naufragio del Télémaque.

Il tragitto dell’ultimo viaggio del Télémaque

La leggenda – perché forse di leggenda si tratta, o magari di storia, noi non lo sappiamo – vuole che, invece di legname e carbone, il Télémaque trasportasse un tesoro incalcolabile: l’oro di Luigi XVI, del clero, delle abbazie di Jumièges, di Saint-Martin-de-Boscherville, di aristocratici e nobili che avevano pianificato la grande fuga all’estero, per mettersi al sicuro ed evitare che la Rivoluzione li espropriasse di tutto. Il problema è che, se anche si può reputare credibile che clericali e aristocratici, a cavallo tra il 1789 e il 1790, volessero prendere armi e bagagli e andarsene dalla Francia messa a ferro e fuoco dai giacobini, il re e la famiglia reale non tentarono la fuga che un anno dopo, nel 1791, quando furono scoperti nottetempo a Varennes (firmando così, in un certo senso, la loro condanna).

Negli anni successivi diversi personaggi, specialmente dei privati, fecero di tutto per spostare il relitto dal fondo della Senna di fronte a Quillebeuf, ufficialmente per ‘intralcio alla navigazione’, affermando che l’épave adagiata sul fondo del letto del fiume ostacolava il viavai fluviale, ma in realtà per cercare di recuperare il fantomatico tesoro. Primo tra essi fu un certo armatore del porto di Le Havre di nome Le Canut (strano e sospetto come il cognome ricordi quello del proprietario del Quintanadoine).

Va detto che ad alimentare la leggenda del Télémaque contribuì anche un pamphlet pubblicato nel 1842 da un inglese, un certo Taylor, uno dei tanti privati che negli anni aveva cercato di riportare in superficie il relitto. In questo pamphlet intitolato “Sauvetage du navire le Télémaque, naufragé en Seine devant Quillebeuf, le 3 janvier 1790, supposé contenir de 30 000 000 à 80 millions de francs” si leggeva che diversi testimoni illustri, nessuno dei quali desiderava essere nominato, affermavano che:

Una quantità considerevole di gioielli e tesori proveniente da alcune chiese sarebbe stata segretamente condotta dentro un magazzino di Rouen affittato di nascosto. In quel luogo, nottetempo, tutti quei tesori furono fusi in lingotti d’oro, poi messi in barili cerchiati di ferro e fatti rotolare fino nelle stive di DUE imbarcazioni: il Télémaque ribattezzato Quintanadoine e una misteriosa goletta.

Sempre in questo pamphlet si leggeva che la destinazione ufficiale era Brest, ma il Capitano Quemin aveva in realtà ricevuto una busta da aprire solo e soltanto una volta superato il Capo de la Hève. Regola della massima importanza: evitare ad ogni costo i doganieri. Questi, però, riuscirono a rintracciare le due barche. La goletta fu arrestata e fatta rientrare in un porticciolo fluviale non lontano da Quillebeuf; il suo carico prezioso fu ispezionato e requisito: vi fu trovata tutta l’argenteria della famiglia reale, pare.

Crestois in azione

Il Télémaque invece arrivò fino a Quillebeuf e… colò a picco. Secondo il pamphlet ciò accadde perché il capitano Quemin, di fretta com’era, manovrò maldestramente la barca. Insomma, una bellissima storia, un’interessantissima storia che portò come risultato altri tentativi di recuperare il relitto che si susseguirono nel tempo, con minore e maggiore frequenza, per i successivi centrotrentotto anni.

Recupero di una parte del relitto

Infatti nel 1939, proprio quando venti di guerra soffiavano sull’Europa, finalmente, André Crestois, un industriale di Parigi, ottiene l’autorizzazione amministrativa ad effettuare dei lavori di recupero. Lo Stato francese era incoraggiato dai successi di missioni analoghe avvenute in quegli anni in giro per il mondo. Un sommozzatore in scafandro, René Cabioche, di Roscof, fu l’uomo che rese possibile il recupero di alcuni materiali dal relitto: candelabri, serrature, chiavi, chiodi, catene, ma anche dei crocifissi, dei sigilli con lo stemma fleur de lis, una catena enorme in oro massiccio usata come pettorale dai vescovi, monete d’oro… i lavori continuarono fino a che, nella primavera del 1940, una parte del relitto fu riportata in superficie. Peccato che su questa parte di relitto non si sia trovato nulla e che la stiva e la camera del Capitano siano sempre in fondo al fiume. Magari il tesoro vero e proprio sta ancora là sotto!

Oggi, purtroppo, dopo che molti lavori di sistemazione del letto fluviale della Senna sono stati fatti durante gli anni, sembra che il punto in cui il relitto affondò e fu successivamente ispezionato e in parte recuperato sia finito sotto un campo di calcio.

Va anche detto che all’epoca dei fatti gli abitanti di Quillebeuf erano conosciuti per essere degli sciacalli di relitti fluviali molto rapidi ed efficaci… chi lo sa, magari il Télémaque non fece nemmeno in tempo ad affondare che già tutto il tesoro era stato distribuito tra gli abitanti della cittadina; resta da vedere, come dicono, se tra le argenterie di famiglia a Quillebeuf ci sia niente recante lo stemma reale. Inoltre, i fanatici delle teorie del complotto affermano che il mozzo annegato durante il naufragio altri non era che il Delfino di Francia. Alla fine possiamo ben dire che tutto è possibile e che tutto è immaginabile.

Il libro di Simenon ispirato ai fatti del Télémaque

La vicenda ha ispirato fior di scrittori, da Victor Hugo che ci si mise di mezzo con un pettegolezzo da salotto, a Georges Simenon, con il suo libro ‘I superstiti del Télémaque’ e al contemporaneo Michel Bussi, che nel suo ‘Usciti di Senna’, pubblicato quest’estate in italiano per le Edizioni e/o mescola intrighi, pirati, tesori e misteri. Magari è la lettura giusta per le prossime domeniche autunnali, con un bel tè caldo e una coperta morbida sul divano, mentre fuori la pioggia sferza i vetri e vi porta, col suo suono lento e ripetitivo, indietro nel tempo, fino al Dicembre di duecentotrentuno anni fa…

Il gadget: da una fonderia francese agli omaggi venduti insieme alle riviste

La parola gadget, la cui forma e pronuncia ce la fanno pensare come un anglicismo che l’italiano ha accolto nel proprio dizionario, ha un’origine ben lontana dalle sponde del Tamigi o dalle brughiere scozzesi.

Siamo in Francia nel 1871: uno scultore di nome Auguste Bartholdi, insieme all’architetto Eugène Viollet-le-Duc e, in seguito alla morte di quest’ultimo, all’ingegnere Gustave Eiffel, uniscono i loro geni per la progettazione e la realizzazione di una statua che raffiguri la Libertà che rischiara il mondo. La Francia farà dono di quest’opera monumentale agli Stati Uniti d’America: un gesto che celebri il centenario della Dichiarazione di Indipendenza e che suggelli l’amicizia tra i due paesi.

Bartholdi, per la parte relativa all’esecuzione, si rivolgerà ad una fonderia parigina, Gaget-Gauthier et Cie., situata dans le 17eme arrondissement, precisamente a rue de Chazelles: con Monsieur Gaget, Bartholdi deciderà di realizzare la statua in fogli di rame battuto con la tecnica dello sbalzo, cioè lavorando il materiale in negativo, dal rovescio.

Qualche dato su questa scultura: la statua è alta 46,05 metri; considerando anche il basamento, essa arriva a 93 metri. La struttura è in acciaio, il rivestimento in rame, la torcia, sostituita durante i lavori di restauro iniziati nel 1984 e terminati nel 1986, in occasione del centenario, è placcata d’oro a 24 carati. La torcia originale è conservata nella hall del basamento.

La torcia originaria nella hall del basamento

Per portare Liberty dalla Francia all’altra sponda dell’Atlantico furono necessarie 1883 casse in cui furono stipate le varie componenti. Una volta portati a New York tutti i materiali, si dovette procedere alla costruzione del piedistallo,

Questa fu una delle prime operazioni di crowdfunding più di successo della storia. Contribuirono il New York Times ma anche un’intelligente strategia ideata nientemeno che da Monsieur Gaget, il direttore della fonderia parigina dove si era lavorato il rame di Liberty. Fece arrivare dalla Francia delle repliche in miniatura della statua, come quelle che oggi l’amico in viaggio di nozze a New York porta come souvenir un po’ banale e prevedibile ai compagni e ai familiari. Il prezzo di ciascuna miniatura era davvero irrisorio, tanto da spingere anche i meno abbienti a comperare un ricordino di questo straordinario evento commemorativo della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. La vendita fu un gran successo e permise in poco tempo di raccogliere abbastanza fondi per finanziare la costruzione del piedistallo e portare finalmente a termine il progetto.

Monsieur Gaget, durante la produzione delle miniature, aveva fatto scrivere il suo cognome sui piedistalli dei souvenir: una mossa pubblicitaria per favorire gli affari della sua fonderia ed associarla per sempre alla lavorazione del rame di Liberty. Non male, come idea!

Quello che Monsieur Gaget non sapeva era che il suo cognome francese, arrivato sulle bocche di migliaia di newyorkesi grazie ai souvenir di Liberty, da gajé divenne gaghet e poi, col tempo, gadget come lo diciamo oggi, come il nome dell’Ispettore dei cartoni animati, per capirci meglio.

In effetti, nel senso odierno, le statuine in miniatura che aiutarono l’operazione di finanziamento del piedistallo di Liberty sono considerati dei gadget, come il ciarpame di cui sono pieni i negozietti di souvenir, come gli oggettini che d’estate si trovano acclusi alle riviste per aumentare le vendite e solleticare la curiosità dei vacanzieri che non sanno che giornale leggere sotto l’ombrellone.

Foto d’epoca: la Statua della Libertà in costruzione a Parigi.

Come è noto, a Parigi esiste una replica di Liberty, assai più piccola, che guarda verso ovest, cioè verso la ‘sorella maggiore’. Essa è stata posta sull’Île aux Cygnes, ma non è l’unica: ce ne stanno anche nei giardini du Louxembourg, all’entrata del Musée d’Orsay e nel Museo delle Arti e dei Mestieri.

Il francese, dunque, che ha così tanto orrore dell’invasione linguistica operata dagli angli e dai sassoni, può ammettere senza paura la parola gadget nei suoi dizionari: alla fine si tratta semplicemente di un ritorno a casa di un cognome illustre che ha compiuto un lunghissimo viaggio oltreoceano!

Il mistero del punzecchiatore di sederi di Parigi

Parigi, anno 1819. Mentre, nelle pagine di Hugo, Jean Valjean è da qualche tempo uscito di prigione e vive come cittadino rispettabile sotto lo pseudonimo di Monsieur Madeleine, le giovani di buona famiglia tra i quindici e i vent’anni che passeggiano per la capitale sono le vittime del famigerato ‘piqueur de fesses de Paris‘.

Tra l’agosto e il dicembre del 1819, infatti, almeno quattrocento donne (ma anche qualche uomo!) affermarono di essere state subdolamente aggredite da qualcuno con un ago o uno spillone ben appuntito o comunque un oggetto aguzzo posto con molta probabilità sulla punta di un bastone da passeggio.

Immagine satirica (e puramente inventata) che raffigura due piccatori nell’atto di aggredire tre giovani parigine

Le aggressioni sembravano avvenire indiscriminatamente di giorno e di notte: il misterioso piccatore affondava la punta acuminata di questo oggetto non meglio identificato nei sederi, nelle cosce, nei petti o anche nelle braccia della malcapitata che gli si era trovata a tiro.

La voce corse in ogni parte della Francia e, come spesso accade, il pettegolezzo gonfiò i fatti talmente tanto che furono divulgate addirittura fandonie come l’avvelenamento e la morte delle giovani ‘piccate’. Tuttavia il piccatore di Parigi ebbe emuli in tutto il paese, fino a Marsiglia, Bordeaux, Lione e Calais. Pare addirittura che la fama di costui fosse giunta fino in Belgio, dove qualcuno si affrettò a rendergli omaggio replicandone le gesta sulle giovani belghe.

In poche parole era nata una nuova categoria di criminali, i piqueurs, i piccatori. Nel dicembre 1819 la polizia parigina diede alla stampa un comunicato in cui si diceva che:

Un particulier dont on n’a pu se procurer le signalement que d’une manière imparfaite, se fait, depuis quelques temps, un plaisir cruel de piquer par derrière, soit avec un poinçon, soit avec une aiguille fixée au bout d’une canne ou d’un parapluie, les jeunes personnes de quinze à vingt ans que le hasard lui fait rencontrer dans les rues.

Le dame provano i para-fondoschiena

Fu istituita una task-force ante litteram, specialmente dedicata all’indagine sui piqueurs. La pruriginosa natura di questi fatti delittuosi portò i giornali dell’epoca a divulgare immagini satiriche molto divertenti, in cui erano raffigurati anche i fabbri e gli artigiani che, con grande spirito imprenditoriale, cavalcarono l’onda di paura generata dal piqueur mettendosi a produrre ‘para-sederi’ in metallo, delle vere e proprie armature per il fondoschiena delle signore. Ricordiamo inoltre che nel 1819 la moda femminile stava cambiando e che le crinoline, che tutte sole avrebbero potuto fungere da protezione, avevano già lasciato posto agli abiti in stile impero, più attillati lungo il corpo, con la vita alta, appena sotto il seno.

Les gendarmes indagano sulle aggressioni. Notare la moda delle dame, vestite con abiti in stile impero

La vicenda ebbe un tornante nell’arresto di un sarto di trentacinque anni, Bizeul. Non fu preso con ‘le mani nel sacco’, per così dire, e con molta probabilità fu un capro espiatorio, la persona a cui, attraverso un processo sommario si rimproverò di essere questo delinquente erotomane con una perversione legata agli aghi, ai petti e ai sederi. Gli fu comminata una multa di 500 franchi dell’epoca e poi venne condannato a ben cinque anni di galera.

Fabbro alle prese col parasedere

Fu davvero lui? Chi lo sa. Gli attacchi continuarono, sporadicamente, anche dopo il suo arresto, ma il piqueur, o i piqueurs, ebbe talmente tanta notorietà ed così tanti emuli in tutto il paese che ogni conclusione, oggi, potrebbe esser quella sbagliata.

La Mauresse de Moret: un mistero alla corte di Luigi XIV

Sœur Louise Marie de Sainte-Thérèse, detta la Mauresse de Moret, è un nome avvolto ancora oggi dalle tenebre del mistero più fitto.
Fu una religiosa benedettina di etnia mista, vissuta tra il 1658 circa e il 1730 nel convento di Moret-sur-Loig, non lontano da una residenza reale molto famosa, il castello di Fontainebleau.

Il solo ritratto esistente della Mauresse

Non si conoscono con certezza né la data di nascita né quando e in quali circostanze la donna entrò nel convento. Si sa però che nomi importanti della corte del re Luigi XIV facevano sovente visita alla suora, senza che il motivo di questo illustre andirivieni sia stato delucidato: spiccano tra i vari visitatori della Mauresse de Moret la regina Maria Teresa d’Austria, moglie del re Sole, il Gran Delfino, il Duca di Saint-Simon, Voltaire e molti altri.

Il mistero si infittisce quando fonti storiche attendibili affermano che la casa reale versava donazioni cospicue al convento, un istituto dalla storia umile che non aveva mai ospitato suore di sangue nobile, ed elargiva perfino una pensione regolare alla religiosa.

Finito. Niente, Nisba. Non si sa altro. C’è un’omertà totale sulle sue origini, il che è quantomai intrigante quando si pensa al tipo di relazioni sociali che stavano alla base della vita di corte: ricatti, segreti, pettegolezzi, affaires… il silenzio stampa che è stato tramandato su questa figura, la cui storicità è irrefutabile, risulta molto strano: i fascicoli che normalmente dovrebbero riguardarla sono stati forse rubati dall’archivio del convento e tutto il resto tace.

Nei secoli sono state avanzate diverse teorie, delle più fantasiose a dire il vero, ma gli storici ne hanno scartate la maggior parte per lasciare solo tre carte sul tavolo da gioco: la prima ipotesi è che si tratti di una figlia avuta dal Re Sole con un’attrice di origini africane, la seconda è che la Mauresse sia stata una figlia nascosta di Maria Teresa regina di Francia, la terza è che questa donna fosse semplicemente una figlioccia della coppia di sovrani (la qual cosa sarebbe totalmente ‘innocente’ e non spiegherebbe in alcun modo i misteri legati alla sua figura, all’andirivieni che si creò tra la corte e il convento e al silenzio tombale nella documentazione storica).

Il Re Sole

La prima ipotesi non è affatto peregrina, perché il Re Sole collezionò conquiste a destra e manca, si sa, generando figli illegittimi un po’… a getto continuo, se mi è permessa l’espressione. Tra l’altro Madame la Marquise de Maintenon, che in maniera molto succinta possiamo definire la dama incaricata di occuparsi dei figli illegittimi del re, fece visita alla Mauresse in convento innumerevoli volte. Voltaire stesso scrive a proposito di queste visite e, soprattutto, della somiglianza tra la religiosa e il re. Inoltre è storicamente accertata la presenza di cortigiani e membri del personale del re che avevano origini africane.

Se queste sono solo prove indiziarie, come si suol dire in linguaggio tribunalesco, vi sono degli incartamenti, o meglio, un ammanco di incartamenti di cui la sola traccia è un ritratto di religiosa dalla pelle scura con l’annotazione “Moresque fille de Louis 14”. La carta su cui questi documenti sono stati stampati è molto rara e costituirebbe una prova di autenticità di tale ritratto.

L’annotazione sulla Moresque

La tesi secondo cui la suora fosse una figlia segreta della Regina Maria Teresa è stata molto apprezzata dal pubblico, soprattutto grazie al racconto che ne fa Victor Hugo nel romanzo ‘L’homme qui rit’.
L’idea è che la Mauresse e la principessa Marie-Anne di Francia, terzogenita della coppia reale, vissuta poco più di un mese alla fine dell’anno 1664, siano in realtà la stessa persona. Pare che la principessa Marie-Anne, partorita pubblicamente dalla regina come era uso al tempo, sia morta il 26 dicembre, che la salma sia stata esposta al popolo, come da tradizione, che il cuore sia stato deposto nelle urne reali nella chiesa Val-de-Grace more teutonico e che il feretro sia stato poi tumulato a Saint-Denis come tutti i reali defunti. Solo che questa, secondo i sostenitori della tesi sulla Mauresse figlia della regina, fu tutta una messinscena organizzata usando un altro infante morto in fasce, poverino, per nascondere la verità, ovvero che la bambina partorita dalla regina aveva la pelle nera!

Maria Teresa regina di Francia

Il pettegolezzo correva a corte… i medici cercavano di spiegare la cosa con la passione della sovrana per la cioccolata (proprio così) o col fatto che la regina aveva troppo spesso assistito agli spettacoli del buffone nano e di colore Nabo (il quale poi sparì dalla circolazione, poverino). Gli storici tuttavia sono quasi tutti concordi nell’affermare che questa possibilità sia più adatta alla trama di un romanzo feuilleton che al rigore di un’indagine storica fatta bene.

La terza ipotesi è invece la più noiosa, trattandosi di una spiegazione semplice come quella del rapporto tra padrino e madrina reali con una figlioccia. La sola cosa inedita, per l’epoca, è il colore della pelle della figlioccia in questione.

Io, per quello che vale la mia opinione, credo che si sia trattato di una dei tanti figli illegittimi del Re Sole. Ma resterà per sempre un mistero, come quello della famigerata Maschera di Ferro.

Per approfondire:
https://www.ina.fr/video/CPF86600807 oppure http://une-autre-histoire.org/la-mauresse-de-moret/ oppure https://www.europe1.fr/emissions/Au-coeur-de-l-histoire/les-grands-portraits-dau-coeur-de-lhistoire-la-mauresse-de-moret-2642823 o ancora http://archives.seine-et-marne.fr/louise-marie-therese-1675-1731

‘Interieur d’une cuisine’, il quadro col color di mummia reale

‘Interieur d’une cuisine’ dell’artista alsaziano Martin Drölling

Osservate questo quadretto del 1815 dipinto da un pittore alsaziano di nome Martin Drölling, conservato al museo del Louvre e raffigurante un’innocente scena domestica: due donne, un bambino che gioca con un gattino, una cucina umile ma dipinta senza tralasciare alcun dettaglio, giochi di luce che ricordano i fasti della pittura fiamminga del secolo d’oro. Grazioso.

L’autore del tableau che trovate riprodotto più sopra è abbastanza conosciuto grazie ai materiali che utilizzava per fabbricare i suoi pigmenti.

Ma andiamo con ordine.

Quanto scritto qui di seguito trova conferma in alcuni documenti conservati agli Archives nationales. L’autorevole rivista Beaux Arts riporta perfino il codice di classificazione dei fascicoli in questione: 03 623.

In questi documenti si legge che nell’anno 1793, cioè in piena Rivoluzione e in piena stesura della Costituzione Montagnarda e Giacobina, l’architetto Louis-François-Petit-Radel, membro del Comité de Santé Publique, fu incaricato di disfarsi dei reliquiari posti nella chapelle Sainte-Anne au Val de Grâce. Codesti oggetti contenevano quarantacinque cuori di membri della famiglia reale francese. In effetti non tutte le sacre reliquie della famiglia reale si trovavano a Saint-Denis, tradizionalmente mausoleo dei Borboni di Francia sin dai tempi del Re Sole: il costume del tempo, detto ‘mos teutonicus‘, prevedeva che alcuni organi vitali, come appunto i cuori, venissero asportati per essere conservati altrove e per facilitare la conservazione dei corpi.

‘Violazione delle tombe reali a Saint Denis’, dipinto di Hubert Robert

Per cui, quando Petit-Radel si vide assegnato questo incarico, forte della sua autorità, andò ad impadronirsi di codesti preziosissimi oggetti tutti decorati di smalti pregiati e decise di tenere i contenitori di grande valore per se stesso.

L’episodio di Sainte-Anne au Val de Grâce fa parte di un capitolo oscuro e grottesco della Rivoluzione, quello dell’estumulazione e profanazione delle tombe reali. A Saint-Denis i copri di monarchi come Caterina e Maria de’ Medici, Pipino il Breve, Margherita di Valois, Luigi XIII e Luigi XIV furono riesumati e gettati in una fossa comune adiacente la chiesa.

Se vi state chiedendo che cosa accadde ai reliquiari rubati da Petit-Radel, come già detto, lui si tenne i preziosi oggetti smaltati.

Quanto al loro contenuto…

Petit-Radel vendette i cuori a peso d’oro, ed essi finirono nelle mani di diversi pittori, Martin Drölling incluso. Costui pare entrò in possesso di dodici organi mummificati, tra i quali vale la pena nominare dello di Maria Teresa d’Austria, moglie del Re Sole. Questi cuori furono poi, con molta probabilità, bolliti e trasformati attraverso complessi procedimenti chimici in un colore assi ricercato dagli artisti del passato chiamato ‘nero di mummia’.

Riporto un passo di un articolo molto interessante circa il colore nero pubblicato dal magazine online ‘Stile arte’:

Il nero di mummia è un colore che ha in sé qualcosa di spirituale.

Si tratta di un nero terragno, quasi terra d’ombra, ricavato dalla triturazione e dalla riduzione in polvere di mummie egiziane, prelevate dalle rive del Nilo e contrabbandate in gran quantità in occidente. Già dall’epoca delle crociate si commerciava in mummie, ma soltanto tra il XVII e il XVIII secolo se ne segnala gran commercio in tutta Europa: nelle farmacie si preparava questa polvere ad un altissimo prezzo vendendola come rara medicina. Ciò durò fino alla fine del Settecento, quando in tutte le città del vecchio continente la polvere di mummia veniva prescritta per curare molte malattie dello spirito e dell’anima. Alcuni pittori, come Tintoretto, impegnando le loro fortune, mescolavano e macinavano più sottilmente questa polvere, “più preziosa dell’oro e dei lapislazzuli, per dipingere le loro ultime opere e fare delle opere e di loro stessi un’arte e un nome eterni”. Dal XVIII secolo si iniziò a rispettare le mummie, indirizzandosi verso un altro modo di prelevare “il colore delle tenebre”: ecco il nero di seppia, un succo prelevato dal mollusco marino con un metodo scrupoloso e attento.

Quindi, quell’innocente scenetta campagnola, in cui due donne fanno lavori di cucito e un bambino gioca con un gatto, che avete ammirato all’inizio di quest’articolo, con ogni probabilità è stata dipinta usando colori fabbricati a partire dai cuori di principi e sovrani di Francia.

Di che sentire dei brividi d’orrore percorrervi la schiena mentre andate a riguardare nel dettaglio il quadro in questione!

I gioielli della corona italiana e della corona francese, un’indagine appassionata – parte 2

Benvenuti nella seconda parte della nostra trattazione sui gioielli delle corone d’Italia e Francia. Come anticipato, se da una parte la catalogazione precisa e completa delle gioie d’Italia è difficile per via delle vicende storiche del secolo scorso, quella Francese è più semplice ma anche più frustrante, in quanto ciò che resta del tesoro della corona di Francia si trova tutto nella Galleria d’Apollo al museo del Louvre, ma la quantità di gioielli che dalla Rivoluzione Francese ai giorni nostri è stata perduta, rubata, venduta all’asta, smantellata e riutilizzata è davvero importante.

Certo, i pretendenti al trono di Francia, nel tempo, hanno continuato ad arricchire la loro collezione privata di gioie. Ma il cuore storico si trova nel palazzo che fu residenza dei sovrani, proprio il Louvre. Per una volta non si può aver nulla da ridire su questo!

Tiara di smeraldi della duchessa Maria Teresa, conservata al Louvre
Diadema di smeraldi della famiglia reale norvegese, un tempo appartenuto alla seconda moglie di Napoleone

Il primo pezzo da novanta di cui si parlerà oggi è un diadema in oro, diamanti e smeraldi appartenuto a Maria Teresa, duchessa d’Angoulême, unica figlia di Maria Antonietta e Luigi XVI sopravvissuta alla rivoluzione. Dono di nozze da parte del marito, Louis Antoine duca d’ Angoulême, fu prodotta nel 1819 e vanta ben quaranta smeraldi. Questo è un diadema che fa appassire di invidia, a mio avviso, l’altra grande tiara di smeraldi di origine francese, creata più o meno nello stesso periodo per l’imperatrice Maria Luisa, seconda moglie di Napoleone, e che si trova in possesso di una famiglia reale regnante: la tiara di smeraldi della corona norvegese. La delicatezza e grazia del diadema della duchessa Maria Teresa mette in ombra, a mio modesto parere, la roboante figura della tiara norvegese, sgraziata da quel grosso smeraldo quadrato che sembra un francobollo.

A Maria Luisa, imperatrice di Francia, apparteneva anche una demi-parure, sempre in smeraldi, che si trova al Louvre. Il diadema abbinato alla collana e agli orecchini è oggi conservato allo Smithsonian Institute e gli smeraldi sono stati sostituiti con dei turchesi. Che peccato!

La Galleria d’Apollo custodisce anche due bracciali appartenuti alla Duchessa Maria Teresa, di squisita fattura, in oro, diamanti e rubini.

C’è poi la meravigliosa parure di zaffiri della regina Maria Amelia, la cui storia è assai complessa: sembra che gli zaffiri siano appartenuti all’imperatrice Giuseppina. Sicuramente nell’anno 1821 essi erano in possesso della figlia di lei, Hortense, la quale li vendette al Duca d’Orléans, che nove anni dopo divenne re di Francia col nome di Luis-Philippe I. Egli li donò a sua moglie, passata alla storia come la regina Maria Amelia.

Un diadema meraviglioso, fatto d’oro, diamanti e perle troneggia nella teca in cui sono custoditi tutti questi tesori: si tratta della tiara di perle dell’imperatrice Eugenia prodotta da Gabriel Lemonnier intorno al 1853. Essa fu commissionata nientemeno che da Napoleone III come dono di nozze per la sua sposa Eugenia de Montijo e contiene 1998 diamanti e 212 perle che appartenevano già alla corona di Francia. A causa di ciò, la tiara non fu considerata proprietà privata e, quando Eugenia partì in esilio con il marito, dopo i fatti del 1870, la lasciò in Francia.

Ecco che si arriva al punto cruciale della storia dei gioielli francesi: che cosa accadde? Perché ne restano così pochi? Perché le corone di Svezia, Danimarca e Norvegia sono in possesso di tanti gioielli napoleonici e la Francia, o meglio, il Museo del Louvre, ne è sprovvisto?

Ebbene, nel 1885 la terza repubblica francese vendette all’asta tantissimi pezzi della collezione della corona. I gioielli della monarchia che erano sopravvissuti alla rivoluzione, le gioie dell’impero napoleonico, i preziosi accumulati da Napoleone III subirono una vendita ridicola: molte pietre furono svendute per una frazione del loro valore reale, e questo perché la perizia e la stima furono fatte in fretta e furia, alla carlona. Col tempo l’istituzione del Louvre riuscì a recuperare diversi preziosi, ma di certo le gioie esposte al museo sono un ben misero resto di quello che doveva essere la collezione intera. Come è stato fatto nel post relativo ai gioielli italiani con la Corona Ferrea, vale la pena menzionare un oggetto storico, di grande importanza simbolica, che fa parte della collezione d’oltralpe: si tratta della corona di Luigi XV, che parrebbe tempestata di pietre e perle preziose. In realtà le gemme furono sostituite con dei cristalli allorché la terza repubblica si apprestava ad organizzare la grande vendita all’asta. La corona fu risparmiata, perché aveva una grande importanza storica, nondimeno le pietre originali furono disperse.

Intanto, però, le segrete di Oslo, Stoccolma e Copenaghen traboccano di gioielli francesi. Pourquoi? Parce que il maresciallo Bernadotte, generale napoleonico, divenne re di Svezia e di Norvegia col nome di Carlo XIV Giovanni di Svezia e Carlo III Giovanni di Norvegia. Lui sposò l’ex fidanzata di Napoleone (eh sì, come in una una telenovela), Desirée Clary, la fanciulla che fu piantata in asso dal condottiero e stratega per l’affascinante e sensuale Giuseppina. Il figlio della coppia, Oscar, sposò poi Joséphine di Leuchtemberg, nipotina della Guseppina Bonaparte di cui sopra (ma non nipote di Napoleone, eh, perché Napoleone e Giuseppina non ebbero mai figli insieme!), e del re Massimiliano di Baviera. Gli eredi Bernadotte, sparsi tra Svezia, Norvegia e Danimarca, disseminarono i preziosi del maresciallo, di Desirée e di Joséphine tra le tre capitali e sono oggi tra le parure più belle e raffinate d’Europa: la tiara di camei, il diadema di zaffiri Leuchtemberg, le tiare di bottoni di diamanti, la parure di ametiste, la tiara Braganza… sono tutte ancora a Stoccolma ad ornare i fortunati capi delle reali svedesi; la parure di smeraldi già menzionata invece decora la testa della regina di Norvegia, mentre quella di rubini è appannaggio esclusivo della principessa ereditaria di Danimarca.

Di seguito alcune foto. Se avete bisogno, mettete gli occhiali da sole.

De amore gallico spera di avervi fatto sognare un po’ con questo excursus fatuo e vanesio negli scrigni reali d’Europa. L’arte orafa è meraviglia, frivolezza, moda, gusto, luccichio e anche, come abbiamo visto, storia.

Le foto non sono mie, sono state trovate nel web ed appartengono ai legittimi proprietari.

La Bravade di Saint Tropez, tradizione e fede

Quest’oggi è la giornata della Bravade de Saint Tropez, una festa che unisce fede cristiana, tradizione popolare e orgoglio cittadino.

La Bravade in sé per sé è una parata di tropeziani in costume tradizionale, muniti di tamburi, trombette, fucili e moschetti, costituita di diverse parti e fasi che si articolano nell’arco di tempo di tre giornate: il 16, 17 e 18 Maggio di ogni anno.

Il nome fa risuonare subito alle nostre orecchio la parola “bravo”. Andiamo ad analizzarne l’etimologia; il sito Una parola al giorno dice:

Dallo spagnolo: bravo, forse a sua volta dal latino: pravus storto, malvagio, o da barbarus selvaggio, indomito.
Vedendo l’etimologia paradossale di una parola tanto certa e comune qualcosa proprio non torna. Il bravo è l’esatto contrario del selvaggio e del malvagio. Un bravo bambino, una brava persona… hanno qualità di posatezza ed onestà!
Non dobbiamo però scordare il cuore levantino in cui questa mediterranea parola ha ribollito per secoli, acuto nello scovare qualità positive nella canaglia.
Lo storto, fuori regola, è anche eccezionale, e così il selvaggio è indomito, valoroso, e non conosce paura. È vero, restano ancora in piedi i connotati più torbidi delle bravate, delle notti brave, dei bravi di Don Rodrigo, ma sono marginali: la radice di questa parola è esplosa nel mondo in un cristallino odore di apprezzamento, stima, nel vigore dell’abilità volta al bene. Così possiamo pensare al coraggioso inglese, il “brave”, e pensiamo all’universale “bravó” che rimbomba acclamante nei teatri più eleganti di tutto il globo.
Da noi è una parola normale, fondamentale – in virtù della sua storia, forse quasi identitaria, per la nostra cultura. Da piccoli facciamo i bravi a modo nostro e poi diventiamo bravi nel nostro lavoro, tornando a casa ci gustiamo una brava cena – splendido rafforzativo – e portiamo fuori il cane, dicendogli bravo quando ringhia alla vicina bisbetica. Il bravo resta ciò che spicca senza frastuoni, armoniosamente, al suo posto, in un modo anche originale, ormai ripulito dalle passate depravazioni – di cui è però rimasto lo smalto allegro e capace


Le bravate e i bravi di Don Rodrigo hanno tutto a che fare con la Bravade de St.Tropez. A partire dal IX secolo, i pirati saraceni facevano spesso incursioni e scorribande lungo le coste provenzali. Si dice addirittura che la cittadina di Ramatuelle, nella cui municipalità si trova l’arcinota spiaggia di Pampelonne, sia stata fondata da alcuni turchi rimasti a terra dopo un attacco pirata. La prova sarebbe l’etimologia del toponimo: rahmat Allah significa infatti “provvidenza divina” in arabo.

Busto del santo in processione

Fu così che i cittadini tropeziani si organizzarono e si armarono per difendersi dai mori, nominando un condottiero, il Capitain de la ville. Con delle lettere patenti reali, la sua autorità e il suo raggio d’azione furono ufficialmente riconosciuti e la carica restò importante ed attiva fino all’arrivo dell’assolutismo e della centralizzazione totale del potere nella persona del Re Sole. Egli stabilì che una guarnigione fissa dovesse acquartierarsi sul promontorio strategico all’entrata del golfo di Saint Tropez, laddove ora sorge la Citadelle, che ospita un bellissimo museo di storia marinara. I cittadini furono così “espropriati del potere militare” e la difesa della zona fu delegata ai soldati professionisti. Ma i fieri tropeziani si rifiutarono di rendere le armi. Le conservarono e, non potendole usare per la difesa, iniziarono a rispolverarle ogni anno in occasione della festa del santo patrono, come a dire “siamo pronti, nel caso ci fosse bisogno di noi”. Una bravata bella e buona! Ecco perché i tre giorni di Bravade sono accompagnati da un continuo esplodere di colpi a salve.

Costumi tradizionali

Insieme ai fucili e ai costumi provenzali antichi, i tropeziani accompagnano in processione la statua del loro santo patrono, contornata di tanti mazzolini di pitosforo profumato e benedetto: si tratta si San Torpete, ufficiale altolocato della guardia imperiale romana, originario della città di Pisa il quale, al tempo di Nerone, ebbe il coraggio di “fare coming out” e annunciare al folle imperatore piromane la sua fede cristiana (fu convertito nientemeno che da San Paolo in persona). Torpete rifiutò l’abiura impostagli da Nerone e per questo fu martirizzato. Dapprima cercarono di darlo in pasto alle fiere, le quali si accucciavano docili ai suoi piedi. Poi lo vollero flagellare, ma la colonna a cui fu legato cadde a terra. Finirono con il decapitarlo alla foce dell’Arno il 29 Aprile del 68 d.C. I cristiani di Pisa raccolsero la sua testa e la conservarono come santa reliquia in una cappella a lui dedicata. Il corpo fu messo insieme ad un gallo e ad un cane, che presumibilmente dovevano cibarsene, dentro una barca, che fu sospinta al largo dai venti e fu trasportata placidamente dalle acque fino alle coste dell’antica Gallia. Fu una donna, Celerina, avvertita in sogno, che andò in spiaggia ad accogliere la salma del santo, rimasta miracolosamente intatta. Il cane restò con lei, il gallò saltellò fino a qualche chilometro dalla costa, e si fermò in mezzo ad un campo di lino. Era le coq au lin, il volatile che diede il nome al villaggio di Cogolin.

Un luogo di culto fu poi edificato velocemente e le spoglie del santo vi furono traslate il 17 Maggio.

Saint Tropez
Pisa

Ecco anche spiegato perché i colori della Bravade sono il bianco ed il rosso: stanno a simboleggiare il legame tra Saint Tropez e la città di Pisa, una delle grandi repubbliche marinare del medioevo, il cui stemma è proprio bianco e rosso.