Pillola: “La baia del francese”, vino di Borgogna, pasta alle olive nere e un porcellino

Un viaggio in treno, andata e ritorno in giornata. Vedere la città dai vetri lacrimosi di una macchina asfissiante di fumo di sigaretta e ricordi.

Mangiare una pasta che è il simbolo dei miei anni universitari accompagnata da un pregiatissimo bianco della Côte-d’Or, un nettare francese emblema della mia vita adulta, che accostamento strano! Imprevedibile corto circuito emotivo, inaspettato distacco dal passato e gioia per il presente, senza nostalgia eccessiva.

Avere il tempo magico della lettura, un angolo di vita in cui non si può far nulla se non oziare, dormire, scrutare pigramente il finestrino del treno come se fosse uno schermo cinematografico rotto o leggere avidamente.

Ho fatto il tragitto di ritorno, in serata, vicino ad una coppia che viaggiava con un porcellino setoloso e tranquillo. Tra le mani e sotto gli occhi “La baia del francese” di Daphne Du Maurier. Iniziato e finito, come un calice di quel delizioso vino borgognone che mi ha scaldata a pranzo.

Avevo dimenticato gli occhiali a casa, ma poco mi è importato: dovevo sapere che ne sarebbe stato di Dona e di Jean-Benoit Aubéry.

Amo leggere romanzi cappa e spada, forse un po’ démodé.

Pillola: lo strano caso della matematica francese e della matematica universale

Viaggiando mi è capitato di avere seduta vicino a me una studentessa universitaria di una facoltà scientifica. Stava preparandosi per un control e ha passato tutto il volo china su dei fogli pieni di formule molto difficili.

Ho sollevato lo sguardo dal mio libro e ho sbirciato nella sua direzione abbastanza spesso e a lungo da leggere tutta la consegna dell’esercizio. Forse perché in francese, forse perché di livello universitario, forse perché io di matematica non sono una cima, non ci ho capito un fico secco.

Ho scorso però il corpo dell’esercizio e, alla vista di simboli familiari, memore dei testi dei miei amici che hanno frequentato la facoltà di ingegneria, ho più o meno compreso che si trattava di un esercizio di analisi.

Sono quindi stata colpita tra capo e collo da queste inaspettate conclusioni: la prima è che un pochino la matematica me la ricordo, la seconda è che il francese matematico è per me terreno ancora sconosciuto, la terza è che mi sono sentita come Champoillon di fronte alla stele di Rosetta. Solo che in quel caso la consegna in francese dell’esercizio erano i miei geroglifici e i simboli matematici il mio testo greco.

Certi fatti della vita sono proprio bizzarri.

Aventuriers des mers, lupi di mare, esploratori e navigatori in mostra al MuCEM

Il MuCEM di Marsiglia è un bellissimo impianto museale a vocazione prettamente mediterranea. La collezione permanente che racconta la storia delle civiltà nate intorno al bacino del Mare Nostrum è spesso affiancata da mostre temporanee interessantissime e di natura estremamente variegata.
Mesi fa ho visitato la fantastica esposizione “Après Babel, traduire“, di cui potete leggere un resoconto qui.
Ieri ho avuto modo di avventurarmi nella storia degli esploratori e dei lupi di mare, dei coraggiosi pionieri delle rotte mercantili del Mediterraneo, dell’Oceano Indiano e dell’Atlantico: un periplo salmastro e piccante, ricco di colori e di poesia che De amore gallico è lieto di raccontarvi.

Ad accogliere il visitatore all’ingresso della mostra c’è nientemeno che una mascella. Non è specificato a quale tipo di mostro marino sia appartenuta: Moby Dick, forse? No, la balena di Giona. O Scilla? Magari Cariddi… no, sono certa che si trattasse del pesce-cane che divorò Geppetto e Pinocchio.

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Un’enorme proiezione di un oceano in piena tempesta accompagna questa terrificante gnatovisione. A quel punto il visitatore onirico è ben presto scaraventato sul ponte del Pequod, da poco salpato da Nantucket.

“Dans le même voyage, l’homme de terre et l’homme de mer ont deux buts differents. Le but du premier est d’arriver, le but du deuxième est de repartir. La terre nous tire vers le passé, la mer les pousse vers le futur.”

Albert Londres, “Marseille, porte du sud”, 1927

Una giostra di sapienze e conoscenze forma un puzzle variopinto: ci sono le mappe dei navigatori arabi, gli estratti della Bibbia, le illustrazioni preziosissime e miniaturizzate della vicenda di Giona. C’è perfino la proiezione di un interessante documentario in cui un autorevole sociologo delle isole Comore spiega come, nei secoli passati, l’Oceano Indiano era considerato un Mar Mediterraneo molto più grande: terre africane a ovest, Arabia, India e sud-est asiatico a nord, il continente Oceania a est, solo il sud è aperto sulla terra più sconosciuta di tutte: l’Antartide. La tesi è supportata dalla rappresentazione cartografica fatta dagli arabi nel “Libro delle curiosità”, un tomo composto nel secolo XI e ritrovato qualche anno fa in Egitto. Lì vi si trovano carte che indicano l’Oceano Indiano come un bacino d’acqua interamente circondato dalla terra.

La cartografia, in effetti, ottiene la pars leonis di questo percorso espositivo: gli spagnoli, dominatori dell’emisfero occidentale del globo a partire dal trattato di Tordesillas (1497), patto stretto con il Portogallo per spartirsi i domini del nuovo mondo, hanno prodotto dei capolavori di inestimabile valore. Ecco, ad esempio, l’Atlas Catalan, del 1450, composto da sei fogli di pergamena, che rappresenta con minuzioso dettaglio, ogni dominio dell’uomo allora conosciuto.

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Ma la più spettacolare di tutte è la carta del planisfero di Fra Mauro, monaco camaldolese, vissuto a cavallo tra il 1300 e il 1459. Egli è l’autore di uno dei planisferi più importanti della storia. A questo progetto dedicò quasi tutta la vita: raccolse le informazioni geografiche e cartografiche disponibili all’epoca, attuando un metodo di ricerca certosina negli archivi e nei testi storici, aggiungendo le informazioni ricavate dai resoconti dei marinai che, di ritorno dai loro viaggi, si fermavano a Venezia. Di fatto, Fra Mauro compose un’opera di proporzioni sesquipedali senza aver mai lasciato le sponde dell’Adriatico.
Le vicissitudini di questa mappa sono molto complesse, Wikipedia ne fornisce un buon sunto. Il lettore che volesse approfondire l’argomento può cliccare qui.

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Come potete notare, il planisfero è concepito capovolto rispetto a come siamo abituati noi.

La mostra continua con una sontuosa carrellata di tesori: oggetti d’avorio, oro, pietre preziose, spezie, resine e incensi. Si posso ammirare meraviglie di vetro e maiolica provenienti dalla Turchia, dall’Iran, dalla Siria, stoffe e sete cinesi, broccati bizantini. Qui di seguito qualche foto che ho scattato durante il percorso.

Uno degli oggetti più bizzarri e che ogni appassionato di Harry Potter potrà riconoscere è stato il bezoar, la pietra che si forma nel ventre di alcuni ruminanti e che nell’antichità

20170901_174233[1]era considerato il più potente degli antidoti contro ogni veleno. Il bezoar esposto a “Aventuriers des mers” è incastonato nell’oro, come una preziosa reliquia cristiana.

A proposito di reliquie… un bel segmento è dedicato alle crociate, evento storico che ha creato contatti, violenti e non, tra popoli diversi ma tutti collegati da un fattore chiave: il mar Maditerraneo.

La mostra ci lascia, storicamente, all’inizio del 1600, poco dopo la battaglia di Lepanto che segnò il trionfo della Lega Santa, composta dalle marine di Stato Pontificio, Spagna, Repubblica di Venezia, Malta, Genova, Lucca e i granducati italiani, sulla flotta ottomana, al tempo in piena espansione.
Ci illustra l’esplorazione di Marco Polo e di Colombo, Magellano e Da Gama senza arrivare toccare, però, il delicato argomento del colonialismo, forse troppo politicamente sensibile e recente.

Se ne esce soddisfatti, anche se, personalmente, avrei preferito gustare un sapore più letterario che storico: un’attenzione maggiore al rapporto dell’uomo con l’elemento naturale, richiami ai grandi romanzi e racconti marinareschi come Moby Dick, Capitani coraggiosi, L’isola del tesoro, le saghe dei pirati della Malesia, l’Odissea omerica, la Ballata del vecchio marinaio, Il lupo di mare, magari pure il popolarissimo Jack Sparrow, o il caro vecchio Capitan Uncino.

Però, forse, l’assenza più dolorosa, almeno per me, resta Corto Maltese.
MuCEM, a quando una bella expo sul marinaio senza la linea della fortuna sulla mano?

Mulhouse e Strasbourg: viaggio notturno sentimentale in un pezzo di Francia che è già Germania (o forse no).

Ho attraversato l’Alsazia in una fredda sera di metà novembre, direzione Treviri.
Le due brevi tappe che mi sono concessa sono state a Mulhouse e a Strasbourg. Nulla di che, nemmeno il tempo di sgranchirmi le gambe, figuriamoci andare a dare un’occhiata a qualche via o monumento.
Però è bastato quel poco per percepire il senso di transizione che ispira quel pezzo di terra.
L’Alsazia (e la Lorena) è salita agli onori della cronaca nel programma scolastico di storia più e più volte: una disputa secolare per il dominio della regione tra Francia e Germania.
E se si mette il naso fuori dal finestrino della macchina si capisce il perché: si è in Francia, a tutti gli effetti. Basta contare il numero di boulangeries che, seducenti, ammiccano nella gelida aria notturna novembrina. Ma i nomi dei luoghi e delle località rimandano ad un passato tormentato, ad un’identità assai più teutonica che gallica. Il nome stesso della regione deriva dall’alto tedesco antico Ali-saz or Elisaz, che significa “dominio straniero”.

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Mulhouse

Una breve cronologia del palleggio tra Francia e Germania potrebbe dare un’idea della precarietà storica di questa terra e di come è assurta a simbolo della rivalità franco-asburgica:
già assegnata a Lotario alla morte di Carlo Magno (814), l’Alsazia-Lorena fu parte del Sacro Romano Impero, se si vogliono considerare l’Impero Carolingio ed il Sacro Romano Impero due entità separate. Alcuni storici sono contrari a questa lettura, preferendo individuare nei due regni un unicum senza soluzione di continuità. Prendendo per buona però la prima versione e ponendo l’inizio del S.R.I. nel 962, quando fu eletto imperatore Ottone I (nota bene: la particolarità del S.R.I. era proprio la carica elettiva del sovrano, che rispecchiava in un certo qual modo la tradizione tribale barbarica del primus inter pares), si può dire che l’Alsazia-Lorena passò dall’Impero Carolingio al Sacro Romano Impero mantenendo un’identità più prettamente teutonica.
 Durante la catastrofica guerra dei trent’anni, essa non venne risparmiata e finì per diventare un pezzo del complesso puzzle geopolitico risultante di quel guazzabuglio europeo. Col passare dei secoli le due regioni furono assegnate al Regno di Francia, precisamente sotto Luigi XIV le roi soleil, per ritornare alla Germania durante il conflitto franco-prussiano nel 1870. Alla fine della prima guerra mondiale l’Alsazia-Lorena fu riammessa alla Francia, fu re-invasa dalla Germania durante l’offensiva bellica del secondo conflitto mondiale, alla fine del quale il territorio conteso rientrò nei confini francesi dove è tutt’oggi.

Niente male per una provincia qualunque dell’Europa centrale.

C’è da immaginare un bel clima di tensione nel periodo delle due guerre mondiali: spionaggio, fraternizzazione col nemico, doppio gioco e nazionalismo da ambo le parti. A questo proposito consiglio la visione di un film meraviglioso uscito quest’anno nelle sale: “Frantz“, produzione franco-tedesca, diretto da François Ozon, girato quasi interamente in bianco e nero, un film struggente sull’elaborazione del lutto e sullo stress post-traumatico sofferto dai poveri soldati reduci della Grande Guerra.

Mantenendo tutto questo a mente, il canto notturno di una donna errante d’Europa si trasforma in una sequela di toponomi di villaggi e cittadine, masticati fingendo un accento tedesco che non ho (perché non conosco il tedesco) e sputati arrotando la erre alla francese.
La tappa a Mulhouse si trasforma in un sogguardare in giro, timidamente, sapendo che è la città natale di un personaggio tanto ammirato, Philippe Daverio, e di un tale Alfred Dreyfus, il cui affaire, se proprio si vuole fare il gioco della causa-effetto, è il casus belli del conflitto israelo-palestinese. Sì, perché se Dreyfus non fosse stato accusato ingiustamente, Zola non avrebbe mai scritto il “J’accuse“, in Europa non si sarebbe espansa l’ondata di antisemitismo che spinse Theodor Herzl a scrivere “Der Judenstaat” e forse tutto sarebbe stato diverso.

Colmar, Strasbourg… l’Alsazia sfila nel buio della notte autunnale, l’automobile fa le acrobazie sul confine tra due stati, come un equilibrista, un circense ubriaco. Ho fame, ma c’è tanta strada da percorrere, ancora, non si può indugiare.
Ci si tuffa nella foresta tedesca, francophonie alle spalle, boulangeries dietro di noi, davanti Treviri e Karl Marx, le pale eoliche che nel buio lampeggiano rubizze, come tanti UFO venuti a prelevarci per riprogrammarci. La carreggiata è dritta, in discesa e in salita, in mezzo ad un bosco immenso, dagli alberi glabri e lugubri. La luna è piena, ma celata da una coltre di nubi che attutisce ogni pensiero.
Il buio appanna i sensi, non li acuisce. Il freddo penetra nelle ossa, si è disorientati dalla mancanza di civiltà: la città è ancora lontana, l’ora di arrivo è posposta, il cuore è affannato.

Una delle persone più care mi ha lasciato, e io lo vengo a sapere in viaggio, di notte, lungo una strada infinita attraverso una selva oscura tra Francia e Germania.

Pillola: ratti e David Bowie

Dodici ore di viaggio in macchina, attraverso la Tuscia, il Valdarno, la Liguria.
Si arriva in Francia frastornati e impolverati; si va a dormire un sonno denso e attonito.
Ci si sveglia: è morto David Bowie.

La sera si passeggia per il porto, ancora illuminato dalle decorazioni natalizie. Un ratto taglia la strada, un brivido di disgusto percorre la schiena.
Il mare è calmo. Si alzano gli occhi al cielo:

There’s a starman waiting in the sky.
He’d like to come and meet us
but he thinks he’d blow our minds.

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D.B.

Traslochi, trasmutazioni, trasformazioni, traslazioni – da narratore onnisciente alla prima persona.

Fatto. Sono arrivata per restare, e tutti i fatti elencati nel titolo si sono verificati.

Ho traslocato con grande fatica fisica: pacchi, scatoloni, scatole e valigie, pulizie, polvere, scope, stracci e spugne, smontaggio mobili, montaggio mobili, lavatrici e pasti frettolosi. Dio solo sa quanti traslochi ho già fatto nella mia breve vita.

Li conto.

Escludendone alcuni parziali, questo è forse il decimo, ma di certo ne ho mancato qualcuno nella ricapitolazione. Questo non sarà l’ultimo, perché chi si ferma è perduto, ma è uno dei più significativi, non posso negarlo.

Trasmutazione. Anche questa è accaduta. Che cos’è una trasmutazione, precisamente? Non posso rischiare di usare una parola in modo incorretto, Moretti lo strilla nella mia testa ogni volta: le parole sono importanti. Il vocabolario Treccani online indica:

trasmutazióne (ant. transmutazióne) s. f. [dal lat. transmutatio -onis]. – 1. a. letter. L’azione di trasmutare, il fatto di venire tramutato o di trasmutarsi; trasformazione, mutamento, cambiamento: quivi sarà transmutazione di viltade in gentilezza (Dante). b. ant. Traduzione: li versi del Salterio … furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno (Dante). 2. In fisica nucleare, reazione per cui un nuclide si trasforma in un altro diverso. 3. In alchimia, pretesa trasformazione di un elemento in un altro, generalmente più pregiato (per es., di un metallo vile in oro).

Ho davvero mutato il mio aspetto, sono giunta ad un’altra forma di me stessa, l’ennesima, non l’ultima, ma la più nuova, un po’ più simile all’oro, parlando per termini alchemici.

E la mia trasformazione? Quella è già avvenuta in un giorno d’estate, quando ho detto addio a persone e cose che oramai esistevano solo nella mia testa. Ho aperto gli occhi e ho deciso che era ora di fare spazio a chi, invece, esiste davvero, e non soltanto nei miei pensieri.

Ecco che arrivo all’ultimo processo, la traslazione. Ne ho studiate e applicate a bizzeffe, a scuola, sul piano cartesiano, spesso senza avere la minima idea di che cosa stessi facendo. Ora, invece, ho capito a fondo che cosa significa, traslando tutti gli affetti che compongono il puzzle del mio cuore da un quadrante del piano ad un altro. L’asse delle ascisse è il confine geografico, quello delle ordinate il tempo che ho impiegato.

Pensando a tutto questo, me ne vado in cucina, dove ho pacchi di pasta Rummo e barattoli di passata Mutti che verranno divorati voracemente dalla mia fame italiana. La Ratatouille può ancora aspettare qualche giorno.

Pillola: frammento di viaggio realmente accaduto

Un treno cadente rotola verso Genova. Due valigie pesanti con me, una estranea, rossa, abbandonata qui in mezzo al vagone da qualcuno troppo stanco per conservare il suo passato. A fianco a me una suora filippina e una africana spiegano il sacrificio di Cristo sulla croce ad un musulmano balcanico. Io sto leggendo del suono del tempo.
Ne jetez aucun objet par la fenetre.

Solamente i vostri cuori.

Stazione di Genova Piazza Principe
Stazione di Genova Piazza Principe

Coast to coast

Raggiungere la Costa Azzurra partendo da quella Adriatica non è un viaggio lineare, specialmente se lo si affronta utilizzando il treno. Va ammesso che, effettivamente, è un mezzo romantico: concilia la riflessione, la lettura e l’osservazione, snerva, stanca, frustra e puzza. Il paesaggio fuori dal finestrino cambia insieme allo stato d’animo, andando dal gioioso pragmatismo delle colline marchigiane verso l’indolente piattume padano. Dall’ossessivo cemento milanese si arriva ad un’aspra e laconica strettezza genovese. Si va lenti lungo un pigro e scomodo litorale fino alla flemmatica e rilassata costa francese. Sembra quasi un avvicendarsi di scenografie teatrali di un dramma il cui attore principale è l’umore del viaggiatore.

Viceversa, il tragitto nel senso opposto è drammatico, lento, tentennante, illogico, impaziente. Alienante. Specie se non tutte le coincidenze e gli orari vengono rispettati, se ci si perde in stazioni dimenticate da Dio alle dieci di sera, aspettando Intercity che sembrano non arrivare mai.

Che si vada in un senso o nell’altro, si deve comunque passare per Ventimiglia. Questa cittadina ha un je ne sais quoi di tetro. Forse è così in tutte le città di frontiera del mondo, ma a Ventimiglia in particolare si soffre, si percepisce nell’aria un’atmosfera di passaggio, un’inquietudine kafkiana che si aggrappa alle viscere con le zanne di una tenia, investendo il viaggiatore di una malinconia foscoliana. Ci si sente profughi, apolidi, rifugiati, in quella città, proprio come quei poveretti che hanno subito il respingimento di frontiera e sono stati costretti ad accamparsi sugli scogli.

Che si sia pendolare veterano o novellino di primo pelo, si è sempre un po’ stupiti e contrariati dalla lunghezza del litorale ligure e provenzale. La loro estensione è esasperata dalla conformazione frastagliata della costa, piena di rientranze e sporgenze, che allungano in modo estenuante il tragitto da percorrere. Ciò colpisce ancor di più il nativo della costa Adriatica, tutta dritta e lineare.

Forse questa differenza di conformazione costiera è una metafora efficace per definire il cambiamento che avviene nel cuore di chi lascia la morbida dolcezza dei profili marchigiani per l’aspra ricchezza del sud francese: una vibrazione nuova muove le corde del cuore, il petto risuona di nuovi accordi e tutto si tinge di una sfumatura verde, come i vigneti provenzali, come il mare in autunno, come una speranza appena nata.