Il 7 luglio è stato il centoventinovesimo anniversario della nascita di Marc Chagall.
Il suo vero nome, Moshé Segal, in ebraico si scrive משה סג”ל, da leggersi da destra verso sinistra, come tutte le lingue semitiche.
Il paese in cui nacque, Vitebsk, è una cittadina della Bielorussia che sorge non lontano dai confini con la Russia e la Lettonia. Fondata prima dell’anno mille, ospitò sin da subito una nutrita comunità ebrea ortodossa che costituì il nucleo del suo shtetl, termine che in yiddish significa “insediamento ebraico dell’Europa orientale”.
La nascita di Chagall fu accolta da un grande incendio nel suo shtetl. I fatti li narra lui stesso nel suo diario e nelle sue opere:
“Io sono nato morto”.
Nemmeno un vagito da parte del neonato, ma una fuga precipitosa dalla casa in cui fu dato alla luce, con la madre ancora distesa sul suo letto di puerpera, per fuggire dalle fiamme che stavano divorando sinagoga e villaggio.

Vitebsk è un locus amoenus, nell’opera dell’artista, un luogo sicuro e amato, non mero sfondo ma palpitante protagonista delle sue tele giovanili. La vita della comunità ebraica e i riti di passaggio che scandiscono il tempo dei suoi componenti diventano acuti assoli di violino nelle variopinte pennellate chagalliane. Un profumo di falò invernali e carne essiccata sembra sprigionarsi dalle tele, mentre un canto ashkenazita ronza nella testa di chi osserva le scene di semplice vita domestica, appannate dall’affetto e dal calore della mano del pittore.
Tra il 2014 e il 2015 ho attraversato l’Italia per andare a visitare ben due mostre su di lui. La prima, e forse la più spettacolare, è stata quella di Milano, “Marc Chagall – Una retrospettiva 1908 – 1985”, al Palazzo Reale, non lontano dal duomo.
Ho avuto modo di vedere di persona alcuni dei suoi più noti capolavori, come “La passeggiata”, insieme ad altri duecentoventi pezzi, tra cui i costumi di scena da lui disegnati per i balletti nei teatri russi.

A Roma, invece, nel bellissimo Chiostro del Bramante, ho visitato l’esposizione “Chagall love and life”. Centoquaranta lavori provenienti dall’Israel Museum di Gerusalemme, tra cui le magnifiche illustrazioni delle favole di La Fontaine. La mostra era incentrata sul tema dell’amore nella pittorica di Chagall, ponendo come trama e ordito principali il sentimento che legò l’artista a Bella Rosenfeld, sua dilettissima moglie.

Nel giugno 2014 ho soggiornato a Parigi per la seconda volta e non ho mancato di rendere il mio stupito e abbacinato omaggio al lavoro più étonnant di tutti: il soffitto del teatro Opéra Garnier. Molti sono i detrattori di questo accostamento: da una parte il teatro nella sua attenta architettura del 1861, dall’altra la leggiadra e onirica pennellata di Chagall su una superficie circolare con al centro il gran lampadario. Quando mi ci sono trovata sotto il sentimento che è esploso nel petto è stato la gratitudine ed il sollievo per quella grandiosa apertura alla luce, quella boccata d’aria pura donata dal pennello di Chagall, che compensava la pesante e lugubre atmosfera del teatro stesso.
Me ne sono andata via da lì un’ora dopo, lanciando uno sguardo innamorato verso l’alto, dove si mosse nel 1964 l’abile e sapiente mano del Maestro.

C’è un’altra mostra che mi aspetta: a Le Baux de Provence sono stati capaci di creare un viaggio multimediale all’interno delle opere di Chagall, una full immersion nelle sue tele grazie alle più moderne tecnologie che permetteranno di vivere i colori del maestro sulla propria pelle.
Io non me la faccio scappare. Poi vi dirò come è stato.